Contagio. Parte prima

La notte era arrivata alla sua fine, quando apparve una palla di fuoco, che lasciava dietro di sé una scia di vapori e alabastro lunga centinaia e centinaia di braccia.

Un tuono.

Il bagliore del segno esplose, dando vita ad una tempesta di lampi e luci.

Il segno oltrepassò la valle e precipitò dietro una montagna.

Un boato.

Una nube di fuoco e fiamme si fece alta sul cielo e la terra tremò.

Il frastuono sembrò non finire mai e fu accompagnato da un vento caldo, carico di resina bruciata.

Il buio.

L’altopiano s’accese di pire, piccolo aiuto per il figlio di Merope a dominare il mondo delle anime perse, che imperava sui versanti di roccia, ricoperti da una coltre senza fine di boschi. Solo le guglie verticali e i picchi solitari svelavano la loro identità di nuda pietra senza vita.

Da uno dei versanti risuonò una voce. Delle parole, un paio di sillabe echeggiarono a lungo, e rimasero senza seguito, come se non le avesse pronunciate anima viva. Eppure tutt’intorno al bagliore delle lingue di fuoco si scorgevano delle sagome umane sotto forma di chimere fluttuanti.

Dei ciottoli tradirono il passo maldestro di una di queste illusioni. Risaliva a fatica un sentiero scosceso sui fianchi del monte.

Era un vecchio senza età, la cui vista incuteva paura o pietà.

Di bassa statura, due gobbe prominenti sulla schiena; anche il suo modo di camminare aveva un che di mostruoso, con le ginocchia che si piegavano sotto il suo stesso peso.

Il suo volto possedeva solo una parvenza d’umano.

La natura gli aveva concesso un solo occhio, del tutto asimmetrico ai lineamenti del volto. Dell’altro, nulla: un buio foro d’osso. Il dorso del naso era fortemente concavo e la punta all’insù, tanto da ricordare le corna degli animali che vivevano sulle cime più alte. Le labbra erano sottili ed erano bianche lattiginose, come la pelle. Le orecchie, due grumi di carne e cartilagine, erano nascoste da una lunga capigliatura, che non nascondeva delle cicatrici purulente del cranio.

Il suo nome era Arus’nas e la storia della sua famiglia si perdeva nella memoria degli uomini.

I genitori, come i più lontani avi, avevano vissuto i loro giorni in una valle lontana nei pressi del vico di Sabase.

La valle era baciata dal calore di Fetonte e vi scorrevano delle acque, che si gettavano in un laghetto dello stesso colore del cielo. Sulle sue rive era stato eretto un recinto sacro. Esso impediva la vista del sacro e le molestie delle ninfee acquatiche.

Conosciute con il nome di Lagane, le ninfee tentavano, nel corso del plenilunio di primavera, di entrare nel tempio della Icatei Trumusjate e carpire i segreti delle guarigioni miracolose.

Invano.

Grazie alla dea, i malati arrivavano numerosi e da sempre più lontano, cercando il conforto per le loro sofferenze che tormentavano i loro corpi e vi restavano fino alla guarigione.

La famiglia di Arus’nas si occupava delle necessità della dea.

Il suo primo vagito avvenne nel corso della notte che precedeva il dies natalis Solis invicti.

Il travaglio della madre iniziò al calare delle ombre e sembrò essere senza fine.

Il suo corpo era madido di sudore e ogni muscolo era allo spasmo per le continue convulsioni. Il viso si era ridotto ad una maschera di dolore.

La donna aveva avuto altre gravidanze nel passato, tutte finite bene. Era stata una sorpresa scoprire che alla sua età avrebbe messo al mondo un altro figlio. Pensò alla benevolenza della Icatei. Se era un dono della dea, il bambino sarebbe stato speciale.

La vecchia levatrice non si era allontanata un attimo dalla donna in travaglio. L’aveva sorretta nei momenti di sconforto, trattandola amorevolmente come se fosse una figlia, che il destino gli aveva negato. Di tanto, in tanto, le faceva bere un infuso di erbe dal gusto amaro, che gli attenuava il dolore delle contrazioni.

Le urla della madre avvertirono che era giunto il momento. La vecchia si alzò e raggiunse uno dei bracieri e vi depose una lama d’argento tra i tizzoni infuocati. Raccolse un vello d’agnello e lo depose a terra. Si girò su sé stessa e diede alla donna un panno da mettere tra i denti. Minuti dopo, il pianto del bambino si fece sentire per tutta la casa.

La levatrice ebbe un attimo di smarrimento, ma tentò di non darlo a vedere. Lo avvolse nel telo e con il coltello tagliò il cordone ombelicale. Deposto sopra il vello, venne offerto alla dea madre che dona alla vita ad ogni creatura ed alla quale tutto ritornava con la morte.

I familiari inorridirono a vederlo. Tutte le precauzioni contro gli spiriti della foresta si erano dimostrate insufficienti o, forse, la gravidanza non era passata inosservata alle creature della notte. Il neonato sano era stato rapito e, al suo posto, giaceva un mostro.

Solo la madre ebbe parole di pietà per la creatura.

Nello sconcerto generale, le opinioni furono molte. Alla fine si pensò di strangolare l’empietà e di seppellirla in una buca ai bordi della foresta, ma i gemiti e i pianti del neonato straziarono la madre, che non volle sentire ragioni. Nessuno avrebbe fatto del male al suo bambino.

Il marito capì che non c’era nulla da fare. Fece finta di assecondare il suo volere e aspettò che si assopisse, stremata dal parto.

Il bimbo venne avvolto in una pelliccia bianca e affidato a due cacciatori. Camminarono con il fagottino per ore e ore con la sola luce delle torce.

All’apparire delle prime luci dell’alba, la meta si apriva davanti ai loro occhi. Avevano raggiunto la valle degli spiriti. Deposero il fagotto sotto un grande albero e fecero ritorno al villaggio.

Contro ogni aspettativa, il neonato riuscì a sopravvivere, grazie alla pietà delle creature del bosco. Divenne grande e imparò la lingua dello spirito. Sapeva ascoltare e comprendere le parole degli alberi, delle piante e degli animali; e condivideva l’armonia e l’equilibrio della madre terra.

Un giorno si perse in un folto bosco. Vide qualcosa che poteva sembrare un sentiero. Si fece strada districandosi tra i rami e il sottobosco, che tentavano di sbarrargli il passo, quando colse una luminescenza proveniente da una delle cime che aveva di fronte.

Il suo primo istinto fu quello di fuggire, ma una voce gli parlò direttamente al cuore, convincendolo a salire. Non doveva dare ascolto alla paura.

Camminò per un bel tratto e attraversò parte del bosco. Da lì risalì un ripido ghiaione e s’inerpicò lungo uno stretto sentiero, una cengia che alle volte si dimostrò un tutt’uno con l’orrido sottostante. A mezzacosta venne avvolto da una nebbiolina azzurrognola. Si scoprì la pelle d’oca su tutto il corpo. Non erano tremolii di freddo, ma non si perse d’animo e continuò a camminare, benché ogni passo fosse sempre più difficile.

In prossimità della cima, vide una grotta. Entrò e fu rapito da una sensazione di serenità e gioia.

Sul tardo pomeriggio, prese la via del ritorno. Si fermò nei pressi di una vecchia casa di pietra, forse appartenuta ad un pastore.

Le fatiche e le emozioni della giornata si facevano sentire e tutti i suoi muscoli dolevano per la tensione.

Si rincantucciò in un angolo della bicocca e si addormentò.

La mattina dopo, al suo risveglio, perlustrò stanza per stanza. Rimase sconvolto da quanto trovò.

Non fece ritorno ai suoi boschi e ai suoi prati. Riparò la casa e vi rimase per lungo tempo. Anni dopo, capì che era giunto il momento di far rientro nella comunità degli uomini. Non fu facile; e dovette imparare l’asprezza della loro lingua e la durezza dei cuori.

I bambini lo deridevano, come solo loro sanno fare, mentre gli adulti lo dipingevano come un corpo maledetto, strappato alla morte da un potente maleficio di una divinità degli inferi.

Una volta rischiò la vita. Un bimbo lo aveva avvicinato con il coraggio dell’ingenuità e lo aveva tempestato di domande. La voce del bambino fece uscire i genitori da una capanna. Le urla radunarono un gruppetto di uomini armati di bastoni.

Arus’nas tentò di spiegare di non aver fatto nulla di male, ma non ci fu verso. Fu percosso violentemente. La furia cieca si fermò solo quando pensarono di averlo ucciso.

Il suo corpo fu trascinato nella foresta, dove i lupi e gli orsi avrebbero fatto il resto. Ore dopo, nel pieno della notte, la pioggia gelata lo aiutò a riprendere conoscenza. Diede fondo a tutte le sue forze per strisciare fino al tronco di un grosso abete bianco. Esausto, svenne.

Lo risvegliò un conato di sangue, che lo stava per asfissiare. Aveva il corpo in fiamme, ma lo era ancor più il suo cuore, persuaso com’era della propria condizione. Solo, abbandonato da tutti, e lo sarebbe stato per tutta la vita. Ma non gli importò. Aveva una missione da svolgere e l’avrebbe portata a compimento, a costo della sua stessa vita.

Benché dovette soffrire dell’ignoranza degli uomini, che lo resero ancor più timido e schivo, le cose cambiarono con il tempo. Gli abitanti delle valli presero a ricercarlo per la sua capacità di comunicare con gli spiriti e di guarire le malattie.

Ciò nonostante niente della sua vita era stato così doloroso, da paragonarsi alle sofferenze che ora stava vivendo. Nelle ultime giornate si era dedicato agli ammalati, passando ore al loro capezzale.

La paura era palpabile, visibile.

Una folata di vento gli scosse i capelli.

Le greggi pascolavano ancora sui pendii più alti e, durante il giorno, l’astro di fuoco faceva sentire tutto il suo calore, ma l’umidità del bosco, resa gelida dall’altezza sembrava voler anticipare i rigori dell’inverno.

Arus’nas indossava una tunica di lana grezza inzaccherata, mentre ai piedi calzava delle sottili strisce di vello, ma non dava l’idea di dolersene.

I suoi passi si trascinavano con l’aiuto di un bastone di quercia. Due ragazzi, poco più che adolescenti, lo seguivano a debita distanza, stringendo due fiaccole accese.

Il vecchio incespicò per tutto il tempo. Ogni due, tre passi alzava la testa e biascicava al cielo delle parole senza senso, rese ancor più indecifrabili dai rivoli di bava biancastra ai bordi della bocca.

Lui era l’uomo che parlava al grande spirito. Lo stesso che lo aveva protetto per tutta la vita. Gli era ignoto il suo nome. Dei suoni incomprensibili nell’aria, ma gli aveva concesso il dono di percepirlo, di intendere i suoi voleri e di vedere nell’oscurità degli animi.

La brezza del fondovalle lo fermò.  Aspirò a pieni polmoni le fragranze che aveva raccolto nella sua corsa, creandogli dei brividi su tutto il corpo.

L’attesa era finita.

Sollevò le braccia al cielo e, con un tono di voce ruvido come la roccia, ordinò alle chimere di accompagnarlo nel canto.

Un suono monotono e ritmico dei tamburi diede inizio ad una trama di voci, invocanti il perdono del grande spirito.

Arus’nas ciondolò la testa, assecondando il ritmo, fino a quando il battito si spense nell’aria. Si volse al giovane che aveva accanto. Lo prese a sé e gli sussurrò delle parole all’orecchio, scuotendolo non poco.

Il vecchio era traboccante di nuovo vigore e riprese a camminare.

Da solo.

Raggiunse uno sperone di roccia, che si protendeva sopra il vuoto.

Lasciò cadere a terra il bastone. Si fece forza sulle gambe e vi salì sopra. Il passo era incerto, come precario era il suo equilibrio. Quando le dita dei piedi sentirono venire meno la superficie della roccia, si fermò.

In bilico tra la terra e il cielo, divaricò gambe e braccia.

Un raggio di sole, che si era fatto strada tra i pendii, lo colpì inondandolo di luce.

I due ragazzi lo raggiunsero e gli consegnarono le torce.

Strinse con tutte le sue forze i manici di legno. Prestò una solenne promessa e le lasciò cadere nel vuoto, seguendole con lo sguardo per qualche istante. Chiuse le mani a pugno e le volse al cielo, in segno di speranza.

Discese dal masso e risalì il declivio. Si fermò davanti ad una fossa.

L’odore della terra fresca indicava che era stata scavata da poco. La profondità non superava le tre braccia.

Degli uomini, emaciati, trattenevano a fatica un bue, la cui disperazione metteva a dura prova la solidità delle corde di nervo.

Il collo della bestia venne premuto a forza sopra una lastra di pietra. Di fianco vi era una ciotola di terracotta grossolana.

Arus’nas  infilò le dita della mano sinistra nelle narici del bue, bagnandosi della disperazione dell’animale; gli sollevò il muso e sull’altra mano comparve una spada corta. La fece scivolare lungo il palmo sino a quando il filo della lama gli lacerò la pelle in profondità. Pronunciò delle parole oscure e squarciò con un colpo netto la carotide dell’animale, che stramazzò a terra, dopo aver emesso un muggito orrendo che si perse negli echi delle montagne.

Dalla gola del bue sgorgò un fiume di sangue zampillante, che si riversò nella coppa.

Arus’nas invocò nuovamente il grande spirito, affinché la luce rigeneratrice illuminasse con tutto il suo calore quella valle, resa maledetta dalle ombre degli inferi.

Molte lune addietro, le porte dell’Ade si erano spalancate nel villaggio, riversandovi fuori il male, che corrompeva i corpi e le anime.

L’orrore degli ultimi giorni aveva lasciato un profondo segno anche su di lui, azzannandogli non solo il corpo. Sapeva che non avrebbe visto la prima neve cadere dal cielo, ma albergava in lui una certezza che lo sorreggeva nei tanti momenti di sbandamento. A breve avrebbe conosciuto la vera luce.

Chiamò a sé tutte le sue energie e, sputando sangue di continuo, si mosse alla volta di un drappello di uomini appena arrivati. Provenivano dal laghetto, dove era caduto il pezzo più grosso del segno.

Non era stato facile portarlo in superficie. Le acque ribollivano in vortici di spuma fumanti e il suo peso era tale che dovettero impiegare un paio di buoi.

Il segno era di color nero, come il carbone. Nel tirarlo fuori si era spezzato in due tronconi e poterono vedere com’erano fatti. L’interno appariva di cenere e vi brillava un cielo di piccole stelle luccicanti.

Arus’nas ordinò di deporre delle erbe essiccate in una decina di giare. Le colmarono con l’acqua fumante del laghetto e, infine, lasciarono cadere dei pezzetti del segno, dopo averlo sgretolato con delle mazze di metallo. Dopo di che, furono sigillate.

L’infuso doveva macerare fino alle prime ombre della notte. Trascorso il tempo, sarebbe stato filtrato con un telo leggero e consegnato a tutti i superstiti del villaggio.

Era tempo di deporre i morti nel ventre della madre terra. Il grande spirito aveva donato loro l’immortalità. Un giorno, alla fine dei tempi, i corpi si sarebbero rialzati dalla polvere.

Tutti raccolsero degli attrezzi e presero a scavare delle fosse, di forma ovale. All’interno vi adagiarono i corpi maleodoranti, ancora avvolti nei loro sudari, del tutto grondanti di sangue e altri fluidi corporali. Li deposero con la schiena addossata alla parete, affinché i volti si appagassero della sempre nuova rinascita dell’astro di fuoco, nella certezza di un prossimo risveglio.

Non si depose una sola arma, ma gli oggetti di una vita trascorsa in pace, tra campi e i boschi.

I corpi delle donne, forse un estremo atto di pietà per ricordarne la bellezza deturpata dal male, furono abbelliti con i loro gioielli, compresi gli orecchini d’oro, creazioni di un maestro locale, inumato anch’esso a poca distanza.

Ora dovevano ricominciare tutto da daccapo, tentando di dimenticare tutto il male che si era abbattuto sulla comunità. Le cicatrici erano tante e le lacrime avevano scavato dei solchi impossibili a riempirsi, però, avrebbero fatto tutto ciò che era possibile, affinché quei giorni divenissero dei dolorosi ricordi.

(continua)

 

 

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