Isabella Morra. Una poetessa lucana del’500. Le Rime.

I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo piangendo, e la mia verde etate;
me che ‘n sì vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate;
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna,

e col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l’alma sciolta
essere in pregio a più felice rive.

Questa spoglia, dov’or mi trovo involta,
forse tale alto Re nel mondo vive
che ‘n saldi marmi la terrà sepolta.

 

Rime, I fieri assalti di crudel Fortuna, XVI secolo

 

 

 

26 commenti su “Isabella Morra. Una poetessa lucana del’500. Le Rime.

  1. 25 anni tutta la sua vita finita per mano violenta dei suoi fratelli padroni solo per sospetto che avesse una relazione con Diego Sandoval de Castro, barone, poeta anche lui. E fu finito.dagli stessi mostri.

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    • Hai ragione. Una storia tragica, senza dubbio, ma preferisco ricordarla anche per la sua indubbia grandezza creativa e poetica, che merita un posto di rilievo nella storia della letteratura italiana. Purtroppo la mano assassina non si è fermata all’abbietto omicidio, ma sembra aver trovato una “complicità” nell’obblio che ha avvolto questa grande letterata.

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    • Intanto, grazie per il commento. Conosco la località, splendida. Alle volte, quando pensiamo al passato, lo osserviamo secondo una visione romantica, poi ci scontriamo con una realtà di una grande donna che pagò con la vita un sogno d’amore e la sua mirabile vena intellettuale.

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  2. da quel che si capisce, trattasi di agnello sacrificale anche sull’altare di “Franza o Spagna purchè se magna” molto in voga al tempo, poveraccia lei!! io sarei per istituire anche una giornata dedicata agli “uomini di merda”: capisco che l’appetito dei cretini è sempre molto arzillo ma un po’ di riferimenti negativi nella marea di miele tossico degli esempi positivi (o presunti tali) servirebbe anche per sottolineare il contrasto ….. pax et bonum 🍒🐋🐬🐟🐳🐳🐳🐳

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    • Caro il mio Teofilo, hai ragione. La tua lettura è stata più profonda di quanto mi fossi proposto. Infatti, il mio proposito era quello di presentare delle poetesse, che, volenti o nolenti, hanno contribuito alla nostra letteratura. Dopo di che il fatto che “qualche uomo di merda” si sia reso responsabile di sì atrocità…non credo essere una cosa piuttosto rara, basta leggere un qualsiasi quotidiano di ogni giorno. Capisco la tua finezza, tuttavia tu stesso m’insegni – ti leggo sempre con attenzione – che l’ipocrisia del miele tossico è ormai debordante. Prova ad immaginarti i Catoni odierni dai loro sacri pulpiti nell’indicarci il contrasto … pax et bonum. Noi due diverremmo dei seguaci del Malox. Un abbraccio. Marco

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  3. ” Poscia che al bel desir troncate hai l’ale,
    che nel mio cor sorgea, crudel Fortuna,
    sí che d’ogni tuo ben vivo digiuna,
    dirò con questo stil ruvido e frale
    alcuna parte de l’interno male
    causato sol da te fra questi dumi,
    fra questi aspri costumi
    di gente irrazional, priva d’ingegno,
    ove senza sostegno
    son costretta a menare il viver mio,
    qui posta da ciascuno in cieco oblio.
    Tu, crudel, de l’infanzia in quei pochi anni
    del caro genitor mi festi priva,
    che, se non è già pur ne l’altra riva,
    per me sente di morte i grevi affanni,
    ché ‘l mio penar raddoppia gli suoi danni.
    Cesar gli vieta il poter darmi aita.
    O cosa non piú udita,
    privar il padre di giovar la figlia!
    Cosí, a disciolta briglia
    seguitata m’hai sempre, empia Fortuna,
    cominciando dal latte e da la cuna.
    Quella ch’è detta la fiorita etade,
    secca ed oscura, solitaria ed erma
    tutta ho passata qui cieca ed inferma,
    senza saper mai pregio di beltade.
    È stata per me morta in te pietade,
    e spenta l’hai in altrui, che potea sciorre
    e in altra parte porre
    dal carcer duro il vel de l’alma stanca,
    che, come neve bianca
    dal sol, cosí da te si strugge ogni ora
    e struggerassi infin che qui dimora.
    Qui non provo io di donna il proprio stato
    per te, che posta m’hai in sí ria sorte
    che dolce vita mi saria la morte.
    I cari pegni del mio padre amato
    piangon d’intorno. Ahi, ahi, misero fato,
    mangiare il frutto, ch’altri colse, amaro
    quei che mai non peccaro,
    la cui semplicità faria clemente
    una tigre, un serpente,
    ma non già te, ver noi piú fiera e rea,
    ch’al figlio Progne ed al fratel Medea.
    Dei ben, che ingiustamente la tua mano
    dispensa, fatta m’hai tanto mendica,
    che mostri ben quanto mi sei nemica,
    in questo inferno solitario e strano
    ogni disegno mio facendo vano.
    S’io mi doglio di te sí giustamente
    per isfogar la mente,
    da chi non son per ignoranza intesa
    i’ son, lassa, ripresa:
    ché, se nodrita già fossi in cittade,
    avresti tu piú biasmo, io piú pietade.
    Baston i figli de la fral vecchiezza
    esser dovean di mia misera madre;
    ma per le tue procelle inique ed adre
    sono in estrema ed orrida fiacchezza:
    e spenta in lor sarà la gentilezza
    dagli antichi lasciata a questi giorni,
    se dagli alti soggiorni
    pietà non giunge al cor del Re di Francia,
    che, con giusta bilancia
    pesando il danno, agguaglie la mercede
    secondo il merto di mia pura fede.
    Ogni mal ti perdono,
    né l’alma si dorrà di te giamai
    se questo sol farai
    (ahi, ahi, Fortuna, e perché far no ‘l dêi?)
    che giungano al gran Re gli sospir miei.

    Povera omonima. Crudele sorte la sua. Almeno la sua voce durerà in eterno. Un caro saluto al mio caro e bravo amico Marco. Isabella

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  6. navigando nel tuo blog ho trovato questa perla dedicata a isabella morra donna impetuosa di passioni anche in poesia…ho visitato il suo castello di valsinni dove si dice vaghi ancora il fantasma della giovane donna trucidata dai fratelli. ciauuu, ti lascio la mia poe preferita:
    Torbido Siri, del mio mal superbo,
    or ch’io sento da presso il fin amaro,
    fà tu noto il mio duolo al Padre caro,
    se mai qui ‘l torna il suo destino acerbo.
    Dilli come, morendo, disacerbo
    l’aspra Fortuna e lo mio fato avaro,
    e, con esempio miserando e raro,
    nome infelice a le tue onde serbo.
    Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva
    (a che pensar m’adduci, o fiera stella,
    come d’ogni mio ben son cassa e priva!),
    inqueta l’onde con crudel procella,
    e di’:- Me accreber sì, mentre fu viva,
    non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella.

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