Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenem…
Dalla seconda metà del XII secolo, il fascino della cavalleria irruppe con tutta la sua forza sugli ambienti di corte, attirando gli scrittori più capaci del tempo. Essi mostrarono il proprio ingegno creando di fatto un mondo leggendario ed epico, solcato da schiere di campioni quali re Artù o Galvano, nonché il più tardo Tristano, aggiogati alle loro reliquie, o presunte tali, come il Graal o l’Excalibur. Dipinti come valorosi, i nuovi eroi uscivano vincitori da tutti i duelli. Tranne l’ultimo, durante il quale l’epica lasciava il posto alla tragedia, cosa che avrebbe dato ampio respiro ai poeti del futuro sogno romantico.
La popolarità della cavalleria non è venuta meno neppure ai giorni nostri, poiché risorge di continuo nei romanzi e nei tanti film d’avventura, molti dei quali di successo planetario, soprattutto quando gli attori primari sono gli ordini religioso militari, in particolare i Templari. Come non citare il romanzo “Il Codice da Vinci” dello scrittore Dan Brown o le recenti serie televisive quali “Knightfall”.
Eppure la cavalleria, laica o religiosa, ha superato numerosi scogli della storia e, spesso, era stata relegata dietro al palcoscenico degli eventi prima di approdare all’Olimpo dell’interesse collettivo.
Senza volersi addentrare troppo nei meandri della storia, all’epoca dell’imperatore romano Caracalla (Lione 186 – Carre 217), lo storico greco Erodiano, che scrisse una Storia dell’Impero dalla morte di Marco in otto libri – che spazia dall’imperatore Commodo a Balbino -, ricorda un vecchio topos mentre scrive della guerra contro l’Impero Arsacide, sottolineando la diversità di conduzione della guerra tra l’Occidente e l’Oriente. Da una parte i Romani, il cui apparato bellico era costituito per lo più da fanti e lancieri; dall’altra i Parti, il cui nerbo constava di cavalieri e arcieri (IV, 10, 3 e 14,3).
È vero, le truppe montate giocarono una funzione crescente nel corso dei secoli – come il ruolo di particolare prestigio nella struttura sociale -, tuttavia, per tutta l’epoca romana i campi di battaglia videro la cavalleria subordinata a ruoli secondari, quali le attività di ricognizione o di inseguimento, rispetto alle manovre dei fanti, inquadrati in unità ben definite.
Un sostanziale cambio di rotta la si ebbe con le campagne militari di Carlo Magno contro i Sassoni e gli Avari; però, una più decisa sterzata avvenne a Lechfeld il 10 agosto 955, quando la cavalleria del re germanico Ottone I sbaragliò l’esercito magiaro di Bulcsù Harka, anch’esso composto da truppe a cavallo.
La battaglia di Lechfeld rappresentò un caposaldo per gli anni a venire.
In primo luogo, mise la parola fine alle incursioni degli Ungheri in Europa centrale e, cosa non secondaria, determinò un nuovo orientamento bellico, che, a sua volta, avrebbe comportato l’evoluzione di una classe di guerrieri dai tratti del tutto sconosciuti nel passato, il cui peso si sarebbe fatto sentire per tutto il Medioevo, e non solo.
I costi esorbitanti per l’equipaggiamento pesante e il continuo addestramento determinarono lo sfoltimento delle file dell’apparato militare, escludendo buona parte della popolazione; e crearono i presupposti per il sorgere di una nuova aristocrazia guerriera, costituita da un magma sociale alquanto eterogeneo.
Al contrario dell’esercito romano, legato a doppio filo con il potere centrale e la società civile, il nuovo ceto guerriero era rissoso, dedito a guerre fratricide, alla rapina e al brigantaggio. Una sorta di limbo semi anarchico in una struttura verticistica piramidale ben cristallizzata.
Figlia della Dottrina delle Due Spade, enunciata sul finire del V secolo da papa Gelasio I, che siglava l’inviolabilità della giurisdizione religiosa e laica, rispettandone i diritti reciprocamente, la società occidentale nel X secolo si era evoluta, organizzandosi in tre ordini ben distinti. Vi erano gli oratores, ovvero il clero dedito alla preghiera; i bellatores, gli uomini d’arme, e, infine, i laboratores, coloro che lavoravano. Questo schema, che ricorda non tanto vagamente il modello di Dumezil, troverà formalmente un’elaborazione ideologica e culturale nel XI secolo nelle opere di due vescovi francesi, Adalbéron de Laon e Gérard de Cambrai. Mentre, i novi miles rappresentavano un mondo che raggruppava personalità molto diverse tra di loro. Non rientravano appieno nel ceto dei bellatores – ordine nobile di antico lignaggio -, e di certo non appartenevano agli strati più bassi della popolazione. Di una cosa si è sicuri. Era un ceto in piena ascesa, capace di disgregare le relazioni solidali tra le tre funzioni, approfittando di ogni momento critico per acquisire nuovi ambiti.
Nei primi secoli, il Cristianesimo, soprattutto nelle provincie africane, e l’eresia montanista avevano rigettato la liceità di una possibile compatibilità tra la fede e la carriera militare. Gli stessi Padri della Chiesa avevano scavato un solco profondo tra i due ambiti, tanto da considerare la professione militare come un’offesa a Dio. La rappresentazione iconografica di san Martino da Tours è solo un esempio fra i molti, per quanto, alle volte, venga ascritto alle schiere militari.
Comunque, l’ascesa sociale della cavalleria trovò corrispondenza nei culti riservati ai martiri militari, antiche figure di primo piano del Cristianesimo, per lo più ascrivibili alla persecuzione di Diocleziano nel 303.
Figura decisamente ossimorica, il martire militare trovò, forse, una sua giustificazione ideologica nel sesto capitolo della Lettera agli Efesini di San Paolo.
“Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo…Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzature ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio”.
Emblematico a tale riguardo è l’arcangelo Michele, che vide ridurre i tratti originari taumaturgici, per assumere il ruolo di comandante delle schiere celesti e divenire uno dei campioni della lotta contro il drago, allegoria del caos e del male. Stesso discorso vale per San Giorgio visto sempre più come il valoroso uccisore di draghi. I cavalieri inglesi attribuirono alla sua intercessione l’esito vittorioso della battaglia di Antiochia (1098). Cuor di Leone, il re inglese, lo vide alla guida dell’esercito cristiano accorso in suo aiuto.
La visione o gli interventi miracolistici di questi santi guerrieri, come d’altra parte la benedizione delle armi, avevano legittimato l’idea della guerra sacralizzata. Tuttavia la guerra, per quanto sacra o giusta, esigeva del sangue e questo era ancora un peccato, che avrebbe obbligato il miles a sottostare alla confessione, alla penitenza e all’assoluzione.
La conquista di Gerusalemme, avvenuta il 15 luglio del 1099, dopo quattro secoli di dominazione musulmana, propose nuovi problemi, quali la gestione dei territori e la sicurezza. Briganti e nemici musulmani percorrevano in lungo e in largo i territori in mano cristiana a loro piacimento, senza che trovassero validi ostacoli. Per di più, molti dei pellegrini si erano ammalati nel corso della Crociata, come molti milites erano usciti malconci dalle battaglie. Peraltro, all’indomani dell’inverno del 1099, buona parte dei milites avevano fatto ritorno nelle terre avite, dopo aver messo in mano la palma di Gerico, quale prova di aver sciolto il proprio voto sulla pietra del Santo Sepolcro.
Pochi, soprattutto coloro che non avevano nulla da guadagnare da un eventuale rientro, si fermarono. Qui si organizzarono in quattro Stati Latini: il Regno di Gerusalemme, la Contea di Edessa, il Principato di Antiochia e la più tarda Contea di Tripoli.
A Gerusalemme, Goffredo di Buglione assunse il titolo di advocatus Sancti Sepulchri, rifiutando la corona gerosolomitana. La locuzione advocatus, che solitamente identificava chi gestiva dei beni ecclesiastici, fa ritenere che Goffredo volesse, almeno idealmente, riproporsi come un novello Costantino, rinnovando la concessione della supremazia della Chiesa di Roma sulla chiesa patriarcale gerosolomitana, attribuendone anche la giurisdizione civile. Dall’altra parte, si sarebbe dovuto aspettare il filologo Lorenzo Valla per constatare che il Constitutum Constantini fosse un falso creato di sana pianta.
Alla sua morte, il fratello Baldovino di Boulogne, dopo aver ricevuto la corona, divenne il primo re latino di Gerusalemme. Ma si trovò a regnare su un “tesoro senza valore e un dominio assai disperso, costituito dalla catena montuosa centrale della Palestina, dalla piana di Esdrelon, da qualche fortezza remota che si ergeva in una campagna ostile, da un esiguo numero di arroganti cavalieri senza legge e da inaffidabili mercenari locali” (Runciman, History of the Crusader, II, pg.71).
Fu in questo particolare contesto geografico, una fucina politica e spirituale in pieno fermento, nel quale s’amalgamavano modelli di santità laica e guerriera con antiche funzioni ministeriali della regalità, che nacquero dei sodalizi di cavalieri, che si voteranno all’assistenza dei poveri, dei pellegrini e degli ammalati.
La presa della Terra Santa non aveva però risolto i problemi con il mondo musulmano circostante, anzi. Le azioni di guerriglia si portavano fin sotto le mura delle città latine, per di più i territori erano infestati da predoni, che non si facevano alcun scrupolo a derubare e uccidere i pellegrini in viaggio verso i luoghi dell’Antico e Nuovo Testamento.
A questo riguardo un brano di un pellegrino norvegese ha conservato una vivacità narrativa che rende leggibile la difficoltà nel percorrere la via che dal porto di Giaffa conduceva a Gerusalemme.
“Salimmo da Joppe fino alla città di Gerusalemme, un viaggio di due giorni, lungo una strada di montagna rocciosa e molto pericolosa. I Saraceni, infatti, sempre in procinto di tendere un’imboscata ai Cristiani, stanno nascosti nelle conche delle montagne e negli anfratti rocciosi, scrutando giorno e notte, sempre in guardia per scovare un qualche gruppo da attaccare in base alla sua esiguità di numero o perché è rimasto indietro rispetto al grosso a causa della stanchezza. In un attimo si vedono comparire da tutte le parti e, d’un tratto, spariscono completamente. Chiunque compia questo viaggio, può vederlo con i suoi occhi. Oh, quanti cadaveri di uomini sulla strada che ai lati, straziati dalle bestie selvatiche…Su quella strada non solo il povero e il debole, ma anche il ricco e il forte sono in pericolo. Molti sono abbattuti dai Saraceni, ma molti di più dal caldo e dalla sete, molti dalla scarsità dei beveraggi, ma molti di più periscono per aver bevuto troppo” (Saewulf, Acount of the Pilgrimage, pg. 8-9, trad. Gloria Germani).
A corto di uomini, i reggenti latini chiesero aiuto ai pellegrini, molti dei quali cavalieri penitenti, e ai reggenti europei. Anche re Baldovino si trovava nella stessa situazione. Si barcamenò alla meno peggio, con esiti alterni. Ma si dovettero aspettare l’incoronazione a re di Gerusalemme di Baldovino di Bourcq, conte di Edessa e cugino di Baldovino I; e la disfatta cristiana nel 28 giugno 1119 nella battaglia dell’Ager Sanguinis per determinare una nuova svolta, che avrebbe rivoluzionato il teatro bellico in Terra Santa, permettendo tra l’altro la sopravvivenza degli stessi Stati Latini ancora per qualche tempo. Si stava affacciando sul palcoscenico della storia un nuovo personaggio: il cavaliere degli Ordini religiosi militari.
Ormai, se si voleva mantenere i possedimenti in Terra Santa non si poteva più far finta di non vedere. I valori cristiani che rifiutavano la guerra dovevano arrendersi di fronte alla realtà della guerra e alle sue brutalità, ma non fu un percorso indolore.
Il dibattito all’interno della chiesa sulla liceità della guerra, mai dormiente, si accese in occasione della grande mobilitazione europea per liberare la Terrasanta. Per molti versi fu difficile, a tratti pericolosi per la stessa unità della chiesa occidentale, ma alla fine i teologi crearono un percorso che veniva a gettare le fondamenta ideologiche per legittimare l’uso della forza in nome della fede. Oltre ai dettami offerti dalla tradizione biblica e dalla patristica, numerosi esempi furono tratti dalla Iurisdictio Aquisgranentis e dalla Regula Benedicti.
L’uso della forza implicava anche l’omicidio e anche in questo caso il dibattito fu complicato e, alle volte, confuso. Ivo da Chartes (1040-1116) esentava il combattente dalla colpa di omicidio, “quod non sint homicidae existimandi qui excommunicatos zelo ecclesiae occiderint”.
Nel gennaio del 1120, il patriarca di Gerusalemme Guermondo e il re Baldovino II di Gerusalemme convocarono a Nablus, in Samaria, un concilio, nel quale vennero stabiliti venticinque canoni, che testimoniavano una società solidale retta congiuntamente dal re e dal patriarca. Il Canone 20 disponeva che un appartenente al clero poteva difendersi in caso di pericolo, senza ritenersi colpevole, ma non poteva prendere le armi per altri motivi e tanto meno comportarsi come un cavaliere: clericus causa defenssionis arma detulerit, culpa non teneatur. Si autem miliciae aut alixuius curialitatis causa coronam dimiserit, usque ad predictum terminum Ecclesiae id confessus coronamreddat et deinceps secundum patriarchae preceptum se habeat. Si autem amplius celaverit, pro regis et patriarche consilio se contineat. (Capitulum XX).
Bernardo di Chiaravalle, fautore della cristianizzazione degli ideali cavallereschi, attestava che “mors pro Christo vel ferenda, vel inferenda, et nihil habeat criminis”. Tuttavia questo non impedisce a Bernardo di affermare che l’omicidio rimane l’extrema ratio di fronte alla violenza dell’infedele nei confronti del cristiano.
L’ultimo tassello per l’istituzione della nuova cavalleria venne fornito nuovamente da Bernardo da Chiaravalle, che, opponendo un exercitus Dominus alla malitia (la cavalleria malvagia), proponeva la difesa della Terra Santa come pellegrinaggio. Ormai si era pronti alla fusione dei “…due ideali correnti della società medioevale, quello della cavalleria e quello del monachesimo, in un unico codice di condotta per una comunità di monaci soldati” (J. Prawer, The Latin Kingdom).
In Terra Santa operavano due ordini ospedalieri: l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme e l’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme. Erano come Ordini Ospitalieri, che si dedicavano alla gestione degli hospitales per l’assistenza di pellegrini, che si trovavano nelle principali città o lungo le vie di comunicazioni della Terra Santa.
Ordinati secondo l’antica regula dei canonici di Sant’Agostino, il loro stato non permetteva alcuna possibilità di portare le armi e combattere.
Gli hospitales, all’interno dei quali non era permessa alcuna presenza armata, si trovavano spesso nei punti più critici, per cui si fece sentire sempre di più la necessità di avere delle guarnigioni a loro difesa.
Nel 1118 (o forse nel 1120) nove cavalieri fondarono una comunità di penitenti armati al servizio dei pellegrini. Una fraternità che viveva in comune, dopo aver preso i voti religiosi.
Era nato il primo nucleo di quello che sarà conosciuto come l’Ordine dei Templari, a cui seguiranno l’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme, l’Ordine di San Lazzaro e, infine, l’Ordine dei Fratelli della Casa Ospitaliera di Santa Maria dei Teutonici in Gerusalemme.