Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenem…
XI.
Quel desìo di saper ch’in cor gentile
Sovente alberga ad ingannevol luce
Mi trasse; indi seguendo infido duce
Tardi di cor vilan scorgei lo stile.
Fummi il costui disagio qual focile
Ch’ogn’or colpiami il cor; ma chi m0induce
A dir quali esche ardesse, se riluce
Pur anco illustre l’oprar mio virile?
Mi taccio donque e m’ascrivo a la schiera
De’ Melciadi Focioni, se non lece
Ch’un empio ingrato altro premio m’apporte.
Di cui non so qual inferna megera
L’alma ingombrassi, che d’onore in vece
Danno mi procurasse, oltraggio e morte.
Quel desìo di saper ch’in cor gentile (Codice di Giulia Soliga, Fondo Cicogna del Museo Correr di Venezia, n. 270, c83r).
XII.
A vile e indegno oggetto di mirare
Talor fui astretta: ma la mente altera
Tosto a dietro si volse, che non spera
Da vil tenzon fama illustre destate.
Se con armi in aringo si de’ entrare
Conformi al vil nemico, ah, che dispera
Ch’in alto aspira e sdegna uscir di schiera
Per ignobil trofeo scuro e volgare.
Quindi è, Signor, ch’uscir s’ode repente
Talor la Musa, se furor l’assale,
Cinta di larve entro incognito velo.
Ma per il più, qui vaglia il ver, si pente
D’aver mai da faretra schiuso strale,
Né affisso a infame segno illustre telo.
A Vile e indegno oggetto di mirare (Codice di Giulia Soliga, opera citata, c.84r).
XIII.
Se può vil nube anco adombrar del cielo
A le più chiare stelle i suoi orizonti,
Per ch’a vil bue vietar, sorga o tramonti
Il sol, ch’ei non rimuggi e al caldo e al gelo?
Non fia che adduggi al verde del mio stelo
Livor d’infame mostro, monti a monti
Inalzi: ch’ivi al mondo pur son conti
Suoi indegni vanti e non gli adombra il velo.
Ma che? Vil core d’ignominia al pondo
Forse pon cura, se in sozzi costumi
Gode, qual entro al lezzo porco immondo?
Quindi è, Signor, ch’ai fiati odiosi, ai fumi
D’empie fauci non bado: a più secondo
Spirar d’aura or m’avvien che i vanni impiumi.
Se può vil nube anco adombrar del cielo (Codice di Giulia Soliga, opera citata, c85r).
XIV.
Tace, è gran tempo, qual pose la cetra,
Onde sen gìo talor mia fama intorno,
Noiose cure al bel desìo troncorno
L’ali, onde s’alza il canto e vita impetra.
Poscia d’odiosa lingua indegna e tetra
Calunnia al furto infame unì lo scorno;
Stimai quei detti qual suolsi il ritorno
D’asibea voce a noi da cava pietra.
Fu poi, non so se da gli elisii o stigi
Campi, Musa ch’al canto spronò il corso
E de l’infamie altrui crollò la selva.
Signor, fu allora, ch’ai costei vestigi
Rivolta, scorsi lacerato il dorso
Di mille ponte offesa l’empia belva.
Tace, è gran tempo, qual pose la cetra (Codice di Giulia Soliga, opera citata, c. 86r).
Non riesco a leggere il finale di alcune righe…
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Spero aver rimediato
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Sì!!!
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Interessante lettura caro Marco. Grazie. E mi pare che il tuo ”tuffo” stia continuando ( spero tu non debba affogare …)
Il mio qui deve purtroppo fermarsi ma c’è tempo per farne altri. E anche se poco so nuotare, sono certa che non affogherò. Troppo mi piace il ”tuo mare”. Notte caro amico mio. Bacio. Isabella
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una bellezza! Da dove li hai tratti?
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Condivido. Li ho paro paro presi da un vecchio tomo, giuntomi dal bisnonno. Ciao
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GRAZIE PER LE GRADITISSIME VISITE AL MIO BLOG
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Preziosi sonetti seicenteschi!
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