Caterina Franceschi. Una poetessa patriota e la prima donna corrispondente all’Accademia della Crusca. L’esiglio. XIX secolo.

O dolce patria, o sacro
Diletto suol natio,
Agli occhi nostri più gradito assai
Del bel diurno raggio,
Innamorato a te vola il desio;
Ma di tua cara vista
Non potrem l’alma rallegrar giammai.
Fra ghiacci eterni faticosa e trista
Lentamente per noi passa la vita;
E quando ancor c’invita
A ricordar la gloria alta degli avi,
L’armi, le pugne combattute, il santo
Nome di libertade, inermi e schiavi
Non abbiamo a donarti altro che pianto.
Così mesti dicean molti de’ prodi
Sarmati eroi, che, dopo la ruina
Della misera patria, in lungo esiglio
Sotto aspro ciel patiano il cenno e l’ira
Del vincitor severo. Allor che il sole
Debile e fredda la sua luce invia
Su quelle terre, ove giammai non spira
Zefiro lieve, né germoglia un fiore,
Ritornavan que’ forti alle sudate
E non degne fatiche. Altri col duro
Vomere apriva le infeconde zolle,
Altri i massi rompendo, e le secrete
Viscere della terra, iva sdegnoso
Nelle caverne a ricercar le vene
del pallid’oro. Ma, poiché la notte
Placidissima e calma breve oblio
Spargea de’ mali, riduceansi uniti
Sotto povero tetto, ed ivi assisi
Presso lo scarso focolar, piangendo
Ricordavan le madri, i fidi amici,
Le consorti, i figliuoli e la perduta
Soave libertà, più delle spose
Cara, più che la vita. In mezzo a loro
Stavasi un vecchio lagrimoso, a cui
Era solo desio, sola speranza
La pace del sepolcro. E, poich’egli ebbe
Ripetuto più volte il nome amato
Della patria, sì disse a un giovinetto
Che presso gli era: Canta, o dolce figlio,
Deh! canta l’inno del dolor; rinnova
I desir’, le speranze e le dilette
Memorie della patria; e, pria che il sonno
Eterno scenda agli occhi miei già stanchi
Della luce e del pianto, mi consola
Con la mesta armonia de’ tuoi concenti.
Tacque; e l’altro staccò dalla parete
L’arpa compagna dell’esilio; un molle
Suono fuori ne trasse, e sospirando
Aperse il labbro in tai dogliose note:
Poiché nel pianto geme
Il bel paese ov’io sortii la cuna,
Che l’iniqua fortuna
Fa di sua rabbia in noi le prove estreme,
A che spiro vital c’informa ancora?
Si mora omai, si mora!
Ché, se impotenti negli umani petti
Stan la vendetta e l’ire,
Ed i più dolci affetti
Son vana rimembranza e van desire;
Un tormentoso e grave
Pondo è la vita, ed il morir soave.
Qui non mai ci consola
Di primavera il riso;
Né un atto, una parola,
Non il pietoso impallidir d’un viso
Porgono al nostro lagrimar conforto.
Questa non è la terra benedetta,
Che nel suo grembo chiude
Le sacre, venerande ossa paterne:
Qui son gelate, ignude
Piagge, squallidi boschi, atre caverne:
Né mai risponde l’Eco
D’un uom libero al canto;
Ma sol ripete dal percosso speco
Le querimonie e il pianto
Degl’infelici a cui morta è la spene,
Od il cupo fragor delle catene.
E questi ferri, e queste aspre ritorte
Premon le nostre mani?
E noi schiavi sediam: noi, che ai felici
Giorni, del sangue ostile
Tingendo in rosso le riviere e i piani,
Mille e mille nemici
Corpi lasciammo pasto immondo ai cani?
Come vento che porta arbori e biade,
Come leon che atterra,
E addenta, e sbrana il gregge in che si scaglia,
Era il nostro apparir nella battaglia.
Era il grido di guerra
Grido di morte alle nemiche schiere.
Che vòlto il tergo, paurose e vinte
Lasciâr cocchi, cavalli, armi e bandiere!
Oh quanta gioja ci pioveva in seno,
Quando, stanchi dal campo,
Al patrio tetto si facea ritorno!
D’una turba festosa il luogo intorno
Era calcato e pieno:
Venian le madri antiche,
Veniano i vecchi infermi, e le pudiche
Donzellette amorose:
Liete correan le spose,
E, sulle braccia alzati i pargoletti,
Tra le vittrici squadre
Col dito ad essi gían mostrando il padre,
Poi sclamavan concordi: Oh! benedetti
Voi, che questo diletto almo paese
Togliete a fato indegno!
Larga fortuna, e il ciel vi sia cortese:
Qui ponga eterno il regno
Libertà con giustizia, e a voi somigli
La crescente virtù de’ cari figli!
Ahi! desïar fallace,
Ahi, pregar vano! Alfin venne il tremendo
Ultimo giorno, ed al poter del Fato
Nostra virtù soggiace.
Tuona il folgor di guerra, in ogni lato
Rimbomba il suol percosso, e l’aura trema
Delle barbare torme all’urto orrendo:
Indarno a mille a mille
Cadono i forti sulle patrie mura:
Invan le donne inermi,
Di lagrime atteggiate e di paura,
Levan le mani supplicando al cielo.
Ahi, dolorosa sorte!
L’antica gloria una ruina involve;
E per la terra, già devota a morte,
Suona de’ prodi con l’estrema voce
Lo scherno e il grido del guerrier feroce.
Degli anni verdi nel fiorito aprile
Te pur forse di vita
Tolse l’ostil furore e il duol segreto,
Verginella gentile,
Che avesti in man delle mie voglie il freno.
Ma, se l’aure celesti ancor respiri,
Deh! la memoria mia conforta almeno
Di pietose parole,
Di poche lagrimette, e di sospiri.
Io porto invidia al sole,
Che il suo candido raggio
Sopra te piove allor che adduce il giorno;
Io l’aria invidio che ti sta d’intorno;
E da questo selvaggio
Luogo, ove piango, per virtù d’amore,
Cara angioletta, a te vola il mio cuore.
Oh! cento volte e cento
Bëati quei che tomba
Trovâr pugnando nel natìo paese!
Altamente rimbomba
Lor nome; e il suon delle onorate imprese
Per i lidi lontani ancor si spande.
Su quelle pietre, lagrimose e meste,
Spargon le donne a’ mattutini albori
Odorate ghirlande
Di rugiadosi fiori.
E il villanel, tornando alla capanna
Dalle arate campagne,
I sacri avelli ai figliuoletti addita,
E gli alti esempj ad emular gl’invita.
Verrà, verrà quell’ora
In cui dal cener muto
Di tanti prodi sorgeranno arditi
Vendicatori dell’oltraggio indegno.
Raggiando allora del fulgor perduto
Avrai decoro e regno,
Diletta patria, libertade avrai.
Deh! almen, pria che la luce
S’involi eternamente a questi rai,
Io veder possa un sì bëato giorno!
Oh! come dolce mi parrà la morte,
Se, facendo ritorno
A te possente e forte,
Nel tuo grembo mi lice in poca fossa
Lasciar le membra travagliate e l’ossa.

 

 

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