La contessa assassinata. “Mal morta ma ben copada”

A Treviso, in pieno centro storico, nascosto timidamente tra l’ordinato groviglio di stradine, viuzze e dei signorili edifici della città, che si riflettono narcisi nelle acque del Sile, le persone del posto hanno l’abitudine di prendersi qualche minuto dalla frenesia della vita quotidiana, fermandosi all’ombra di una piccola oasi verde, che scende dalla Piazza Sant’Andrea, sulla quale s’affaccia la mole neoclassica della chiesa dedicata all’apostolo.

In questo giardino, fino ai tristi giorni del Secondo Conflitto Mondiale, vi sorgeva un palazzo nobiliare del Seicento tra i più bella della città, con tanto di parco, abbellito come pochi da piante e fiori.

Nel 1944, nel corso di uno tra i tanti bombardamenti aerei subiti dalla città, l’edificio fu ridotto ad un ammasso di macerie. Quello che era stato il palazzo di una delle famiglie più importanti della Marca, il casato degli Onigo, non fu più ricostruito e l’intera area fu assorbita dal patrimonio comunale, che la riservò destinandola ad una nuova destinazione: gli attuali Giardini Pubblici di Sant’Andrea.

La conversione dell’area non ammutolì le voci sommesse che bussano alla coscienza di chi voglia ascoltarle nel loro lato tragico. Narrano di un fatto raccapricciante, di sangue, che aveva segnato profondamente l’opinione pubblica, per una serie di aspetti certamente non edificanti, comunque discutibili.

In un pomeriggio soleggiato del promettente mese di marzo del 1903, avvolti dalla soavità primaverile, aveva risvegliato il desiderio di indugiare fuori dal tepore delle mura domestiche. Chi avesse percorso il perimetro della proprietà Onigo non avrebbe potuto non sentire i rumori caratteristici dei lavori di giardinaggio, che si stavano svolgendo all’interno del parco, dove i più coraggiosi tra i fiori sgomitavano tra loro, stretti tra erbacce imputridite e dal muschio invernale, mentre le siepi un po’ avvizzite e gli alberi di alto fusto attendevano il loro turno per una salutare potatura stagionale.

I fittavoli e i braccianti ebbero un soprassalto, quando udirono risuonare alle loro spalle lo scalpiticcio di scarpe, lungo uno dei vialetti più vicini alla magnolia cui stavano armeggiando con alterna perizia.

I passi erano di una donna di statura media e abbastanza avanti con gli anni, ma conservava ancora una incredibile vitalità. Il viso era severo e pallido, come il bon ton imponeva alle aristocratiche del periodo. Indossava una blusa di seta a righe diagonali bianche e nere e una lunga sottana bleu scuro con quadriglie di velluto rosso, con un fazzoletto a nastro bianco e verde. Era la contessa sessantenne Zenobia Teodolinda Onigo, figlia illegittima ma riconosciuta di Guglielmo d’Onigo e di Caterina Jaquilard.

Ultima erede della casata degli Onigo, antica famiglia nobile di origine germanica, cadevano su di lei buona parte delle responsabilità della gestione dei beni di famiglia, aiutata laddove poteva dall’ancora in vita madre Caterina e, sicuramente, con il cuore ferito a morte, dato che il marito, al secolo Oliviero Rinaldi, teso decisamente più ai piaceri che agli obblighi coniugali, aveva pensato bene di vivere la sua prosaica inclinazione ad Asolo, la perla incastonata nella Pedemontana Trevigiana, il palcoscenico incredibile nel quale il letterato Pietro Bembo vi ambientò gli “Asolani”, il trattato in prosa in tre libri dedicato a Lucrezia Borgia.

Il buon Olivieri trovò sé stesso in questa sua Valchiusa o Calipso, tanto da divenire padre ben quattro volte con una fanciulla del luogo, lontano dagli affanni e dalle incombenze della vita quotidiana.

Teodolinda era accompagnata dal fedele amministratore Giuseppe Sabbioni, un personaggio davvero singolare da meritare un ruolo da protagonista per un romanzo storico. Nato a Torino nel 1845, il buon Dio lo aveva dotato di una naturale vena creativa, anche nell’ambito artistico, cimentandosi con un discreto successo nell’arte pittorica. Il suo mindset lo condusse a sperimentare nel settore agrario tutte le innovazioni che la tecnica poteva offrirgli, al punto da testare per primo i cannoni antigrandine. Le chiacchiere del paese si dilungarono molto sulla di lui moglie, ritenendola in un certo qual modo un frutto della regale nidiata del piemontese Vittorio Emanuele II e della morganatica “Bella Rosina”.

La contessa e il Sabbioni stavano conversando amabilmente sul più e il meno, quando sul volto della donna s’impresse una mimica corrucciata, che traspariva una lampante contrarietà. Accelerò il passo, lasciando alle spalle l’accompagnatore e si avvicinò al gruppetto di uomini intenti alla potatura della magnolia, apostrofando uno di essi, colpevole di accanirsi sulle radici in superficie della pianta o, secondo altre testimonianze dell’epoca, di non fare niente.

L’asprezza del tono sottolineava non solo la differenza sociale, ma, e soprattutto, uno degli effetti reattivi sulla stratificazione stereotipata maschile sul lavoro agricolo.

Il destinatario della rimostranza non profferì una sola parola. Le rivolse unicamente uno sguardo penetrante. Si rialzò da terra e con un volto inespressivo, privo di anima le andò incontro.

Teodolinda rabbrividì e lo guardò timorosa, mettendo alla prova il suo temperamento deciso. Quando le fu davanti, vide solamente ruotare il braccio, poi niente. L’uomo le aveva inferto un colpo con l’accetta sul cranio.

Teodolinda non emise un grido, cadde a terra in un bagno di sangue. L’aggressore le si avventò ancora e la colpì violentemente una seconda volta, staccandole quasi di netto la testa dal corpo.

Come un automa, si risollevò. Non staccò gli occhi dal corpo della donna, in preda agli spasmi e ricoperto dal sangue rosso vivo, che fuoriusciva dalle ferite a fiotti, con un flusso alternante. Dopo di che, passò in rassegna i volti allucinati dei presenti e, con il ferro del mestiere trasformatosi in arma, s’incamminò in direzione del centro, mentre il Sabbioni tentò inutilmente di darle un primo aiuto e, follia, gli altri ritornarono al lavoro interrotto.

L’assassino venne fermato e arrestato nei pressi della Piazza dei Signori, la piazza principale della città. Non oppose alcuna resistenza.

L’autore del delitto era il ventiseienne Pietro Bianchet, originario del bellunese. Il suo passato, che coincideva con il suo presente, parlava di stenti e di malattia. Neppure il grande attore Tespi avrebbe potuto dare vita ad una maschera così realistica, per raffigurare la grande povertà e le privazioni estreme, come il suo volto sfigurato dalle profonde cicatrici, così profonde da confonderle con le stimmate della lebbra. In realtà, le lesioni documentavano visivamente il dramma della pellagra, malattia dovuta a deficit di vitamina B3, il cui decorso si esprimeva nel mondo anglosassone con le 4 D, ovvero diarrhea, dermatitis, dementia e death (diarrea, dermatite, demenza e morte), con la “compromissione della sfera psichica, caratterizzata da ipereccitabilità, manifestazioni neurasteniche e melanconiche, con quadri depressivi anche assai gravi che possono portare al suicidio” (Franco Lupano). In quello che era stato denominato come il Triangolo della Pellegra, all’incirca coincidente con il Veneto, Lombardia e l’Emilia-Romagna, la malattia aveva colpito parte delle classi rurali povere e l’effetto fu la sempre nuova e diffusa istituzione di nuovi manicomi, dove isolare dal resto del mondo gli inermi, per quanto i pellagrosari fossero ufficialmente presenti nei territori colpiti da questa sciagura, come l’istituto sorto a Mogliano Veneto, a qualche chilometro da Treviso e Venezia, ancora nel 1883.

I giornalisti fiutarono nell’aria la notizia e ci si buttarono come avvoltoi su una carcassa. Nel giro di poco invasero ogni aspetto della vita privata di tutti i personaggi, coinvolti a vario titolo nel delitto.

L’omicida era additato come “bisnente” o “pisnente”, appellativo con il quale si denominava i contadini senza terra (essere proprietari due volte di niente). Affittuario di due miseri appezzamenti di proprietà della contessa a Trevignano, poco più di quattro case non lontano da Treviso, il Bianchet viveva in un tugurio con il pavimento in terra battuta, tetto in paglia e cartoni sulle finestre, le cui utilità si riducevano al far uscire il fumo del braciere. Lo condivideva con una bimbetta, la moglie, Maria Semenzin, in dolce attesa.

Giorni prima del fattaccio, una bufera aveva infierito su Trevignano, provocando allagamenti e devastazioni varie, che colpirono in particolari i più poveri, come la famiglia Bianchet. L’uomo chiese aiuto alla contessa, ma non ci fu verso. Non ottenne le due balle di fieno che aveva richiesto. Più avanti, quando si trovava a Treviso per i lavori del parco, gli sopraggiunse la notizia del parto della moglie. Era diventato padre per la seconda volta di una bambina. Invano tentò di ottenere un prestito dalla nobildonna, come andò a vuoto la richiesta di un sacco di farina.

Mentre si attendeva il processo, in città montava il caso per lo più amplificato dalle classi sociali più umili, che presero a parteggiare per l’assassino. Qualche voce malevola prese a girare per le vie di Treviso, riferendo di qualche interesse intorno all’ingente patrimonio degli Onigo, nascosto sotto questa indulgenza, magari da parte di quei latifondisti dai quali provenivano una buona fetta di braccianti e fittavoli che portavano avanti la protesta.

Il clima ostile alla defunta fu rinfocolato dalla sua fede valdese, retaggio di sua madre Caterina, volendone quasi evidenziare le sue presunte diversità rispetto ai buoni cristiani e, quindi, buoni cittadini.

Le autorità locali non dimostrarono di possedere il polso della situazione e il caso deflagrò in tutta la sua violenza durante il funerale della contessa. Il corteo funebre fu più volte bloccato e altrettante volte i palafrenieri dovettero bloccare i cavalli imbizzarriti. Nei pressi dell’attuale Porta Santi Quaranta, l’altrimenti conosciuta con il nome di Porta Cavour, i facinorosi tentarono di impossessarsi del cofano funebre, per gettarlo nell’acque del fiume Sile.

Il caos era ormai ingestibile e la contessa dovette essere seppellita in tutta fretta nel tempietto sepolcrale di famiglia nel parco del palazzo Onigo a Pederobba, dove ancora oggi è possibile vederlo.

L’odio riuscì andare oltre la sua tumulazione. Durante la notte qualcuno pensò bene di profanare la sua tomba, gettandovi sopra tavole e pietre, affinché “l’anima si alzasse verso il cielo”.

L’ambiente giudiziario a Treviso apparve compromesso a favore dell’imputato, per cui si pensò di spostare il processo a Venezia, pensando di trovarvi una sede neutra, ma fu un errore. Qui si avviò la stigmatizzazione della defunta, attribuendole tutta una serie di caratteristiche negative tali da renderla spregevole.

Il processo si aprì il 26 febbraio 1904 e il dibattito si tenne subito con ritmo incalzanti e non mancarono i colpi di scena. Il clima dell’aula era speculare a quanto avveniva fuori in città. Il popolino seguiva l’accusato durante i suoi trasferimenti, incitandolo e manifestando tutta la sua vicinanza.

Poche le voci coraggiose che tentarono di riportare il dibattito nell’alveo dovuto, ma furono del tutto inutili. Parte delle testimonianze si rivelarono pregiudizievoli, se non apertamente ostili. Tra queste la deposizione del parroco di Trevignano, don Sante Pedron, il quale testimoniò che l’imputato non era quello che si poteva considerare un buon cristiano, un simpatizzante socialista e non lo vedeva mai alle funzioni religiose, neppure nelle ricorrenze più importanti.

Quando fu lasciato libero di allontanarsi dallo scranno dei testimoni, il sacerdote si volse verso il Presidente e, con un gesto teatrale degno di altri palcoscenici, esclamò: “Se non avesse avuto fame non avrebbe ucciso”.

Le poche deposizioni favorevoli alla contessa furono svilite e dileggiate. Si polarizzò l’interesse dell’opinione pubblica spettacolizzando e strumentalizzando le voci più pruriginose, stracciandosi le vesti quando entrarono nell’ambito sessuale della vittima, dopo averla dipinta come un’eretica per la sua adesione ai precetti della “Biblioteca dei barba”. La cronaca di un giornale a tiratura nazione ne è un esempio esemplare: “Una linea gentile, aristocratica, un viso da artista, una bellezza fine, quella di Giulietta Hirschauer che fu dama di compagnia della Contessa Onigo. Questa la conobbe a Parigi in uno dè suoi viaggi, la prese con sé e ne fece la sua intima amica. Tale intimità diede anche da parlare alle male lingue. Ma noi non siamo pessimisti, ed anzi, dal loro distacco poscia avvenuto in circostanze poco amichevoli si deve arguire che quelle intimità non esistessero.

L’articolo, come tutti gli altri similari, colse nel segno, catturando l’interesse morboso della gente e la defunta si trovò suo malgrado esposta al pubblico ludibrio e al giudizio stizzito della bella gente.

Il 2 marzo, dopo soli quattro giorni, arrivò la sentenza. L’imputato venne condannato a soli otto anni e nove mesi, concedendo tutta una serie di circostanze generiche, relative sia l’agente del reato che il reato stesso, perpetrato alla “malata di avarizia”.

Nell’euforia generale, si distinse solo il settimanale diocesano La Vita del Popolo, che chiosò la sentenza: “Noi siamo rimasti addirittura stomacati e avviliti al notare il contegno ributtante di molta parte del popolo veneziano che rumoreggiava durante il consiglio dei giurati e poi, dopo la condanna accompagnava il Bianchet sulle barche gridandogli Evviva. Come? Evviva gridate ad un uomo, sia pur eccitato (in preda ai deliri della pellagra) quanto si voglia, che s’è macchiato del sangue di una signora, più che malvagia, affetta da mania? Via, canaglia!”

La notizia della blanda condanna fece giro delle sette chiese in brevissimo tempo. A Treviso, un giornalista, che stava cercando qualche altra notizia sulla contessa da sbattere nella prima pagina, ascoltò una conversazione, tenutasi tra due avventori di un bar, peraltro a due passi dal palazzo Onigo, che terminò con il commento: “Mal morta ma ben copada”. Il Tribunale di Venezia aveva rimesso a posto le cose. E così a Treviso riprese il consueto tran tran, salvo che all’avarizia della contessa succedette la virtuosa parsimonia dei latifondisti maschi, quasi tutti aristocratici o di nobile estrazione; alla corruzione vizio inconfessabile della donna e dei suoi costumi si ripristinò la purezza, il pudore, l’austerità e il decoro del buon padre di famiglia e, infine, all’abominio e all’infezione da perversione eretica si contrapposero i “sepolcri imbiancati”.

47 commenti su “La contessa assassinata. “Mal morta ma ben copada”

    • Despite its terrible consequences, the countess’s story does indeed have some truly noteworthy aspects, especially when considering all the factors in favor of poor Teodolinda, which is often overlooked. Unfortunately, she is often called a miser, forgetting that she was one of the most enlightened agricultural entrepreneurs, compared to the many noble landowners of the time. But you know, sometimes history… Thanks for the comment. Marco

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    • Hai ragione da vendere. prova solo a immaginare quanti speciali serali, con i consueti consulenti tecnici et vari specialisti de noialtri si farebbero su una storia del genere. Peraltro, sono quasi sicuro che potrebbero di peggio rispetto al passato. Grazie per il commento. Un abbraccio, Marco

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    • Grazie a te, per aver letto il pezzo e postato il commento. Purtroppo, le cronache riportano innumerevoli testimonianze di questo tenore, quasi sempre con esiti drammatici per la protagonista femminile.

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    • Grazie, molto gentile. Hai ragione, niente di nuovo sotto il sole, quando poi la vittima del momento assume la funzione catartica di un periodo storico o, comunque, giustificata da alti e ineludibili ideali diviene quasi un assioma storico.

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  1. spettacolare affresco delle anime venete pedemontane e anche lagunari ….. come sempre maestro dalle pennellate ampie (che comprendono i vari gradi di interazione fra le componenti sociali) efficaci (riescono a rendere perfettamente leggibile “il milieu”) drammatiche (non era uno scherzo vivere a quei tempi) e, allo stesso tempo, quasi neutrali: bravissimo come sempre (anche a scegliere “il caso”) ….. grazie!!! 😉🙃🙂🥇🥇🏆🏆🏆🏆🎗️🏵️

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    • Questa faccenda testimonia il proverbio “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, una grande perla della saggezza popolare. Quante volte la storia, compresa quella con la esse maiuscola, non ha raccontato la verità su determinati argomenti, tentando di occultare responsabilità o fini non proprio edificanti. Grazie di aver letto il pezzo. Sono contento che ti sia piaciuto, come sono grato per il commento che hai lasciato. Un pensiero. Marco

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  2. affascinante racconto che considero attualissimo, inquadrando diversamente i protagonisti.Però….davvero strano che in quei tempi lontani si favorisse un poveraccio assassino sì ma forse con qualche ragione al posto di una nobile che , come succedeva quasi sempre, considerava i suoi braccianti servi senza dirìtti…hai scelto un caso davvero affascinante mio caro e le foto sono splendide…conosco treviso, da giovanissimi ebbi un innamorato in questa bella città 😀 ciauuuu

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    • Cara Viki, la faccenda mi ha colpito fin dal momento in cui mi imbattei nella figura di Caterina, la madre di Teodolinda, che morì qualche tempo dopo l’omicidio della figlia, senza mai conoscere il bailamme giudiziario e sociale creatosi. La valdese Caterina donò tutti i suoi beni per l’istituende Opere Pie di Pederobba, aperte sia cristiani cattolici sia ai protestanti. Il profilo epicicloidale – il caldo di queste ore – della storia necessita sempre di casi eccezionali o singolari, che provocano improvvise fiammate e poi si esauriscono come se niente fosse accaduto. Il caso di Teodolinda è uno di questi. Che dire poi dell’ipocrisia dei grandi baroni della terra, che, con sdegno teatrale, imputavano alla povera un sadico accanimento verso i suoi braccianti, quando loro, in moltissimi casi, erano ben peggio. Ahi, un altarino. D’altra parte Treviso, il capoluogo della Marca Gaudente si presta. Cara Viki, grazie per il commento. Un bacione. Marco

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      • caro marco,mi piacerebbe poter discutere a voce con te su questo caso: la mia visione e interpretazione è un pochettino diversa dalla tua. ma non essendo posssibile ti mando un bacione e un abbraccio

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      • Cara Viki, credo di aver capito quale in che cosa consista la diversità di interpretazione. La mia visione dell’accaduto non vuole soffermarsi sulle reali ingiustizie sociali, che furono tante e, molto spesso, disumane, ma sul punto di vista settario dei benpensanti di allora, che, a quanto mi consta, erano tra i primi a dispensare la propria arroganza, come se fosse un diritto acquisito. L’importante che fossero di buona famiglie e, soprattutto, di un determinato genere. Comunque, ricambio di cuore il bacione e con lo stesso affetto un abbraccio sincero.

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  3. Quasi un romanzo quello che hai scritto con dovizia di particolari e una punta di ironia ben gestita nei punti cruciali.

    Cambiano i tempi ma non le usanze che sono dure a morire come lo spettacolo imbastito intorno all’omicidio e al processo.

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    • Grazie, molto gentile. Sono d’accordo con te, basta osservare cosa sta accadendo negli ultimi periodi, relativamente ai processi usciti dalle aule dei tribunali per insediarsi nelle case degli italiani, attraverso le innumerevoli trasmissioni televisive, dove i vari tecnici e non trovano il tempo per discutere su tutto e tutti, senza pensare mai al male che possono provocare.

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    • Grazie di aver letto il pezzo e di aver scritto il commento, che apprezzo. Spesso e volentieri il sacrosanto diritto di cronaca si trasforma nel diritto opinabile di infangare qualcuno sulla base delle proprie convinzioni sociali, religiose, sessuali o di altri convincimenti non propriamente edificanti

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    • Hai ragione. In questa brutta storia sono entrati in gioco i peggiori protagonisti che hanno sempre accompagnato l’umanità, indirizzandola quasi sempre all’orrore di non liberarsi dal male, passato sotto mentite spoglie di un qualsiasi ipse dixit. Grazie per il commento. Alla prossima

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  4. Storia allucinante, non amo la violenza, ma una morte così è chiassosa anche se ai giorni nostri la violenza è sempre più obbrobriosa…Se guardiamo i vari femminicidio di va forse oltre la violenza. Sì può parlare di oscenità e crudeltà mentale tanta è l’ efferatezza.🙋🏻

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    • Cara Desire, grazie per la tua visita. Hai ragione a considerare il femminicidio un delitto capace di valicare il semplice assassinio, lasciami passare il termine semplice. Il modus operandi sulle malcapitate è sempre lo stesso. Prima, il grande amore di un principe azzurro, poi la vittima viene a mano a mano annichilita in ogni sua manifestazione, infine, il gesto estremo, a prescindere dalla volontà di lei a chiudere una relazione così tossica. Il cerchio relazionale di questo genere non può esprimere un diverso epilogo. Purtroppo, la violenza che contraddistingue il femminicidio non è cosa dei nostri tempi. Tra i tanti casi ricordati dalla cronaca, vorrei porti all’attenzione quello di Cesira Ferrari, assassinata dal marito nel 1889. Ti trascrivo l’iscrizione originaria che recava l’epigrafe:
      Cesira Ferrari
      bella e purissima sposa
      fu nella notte dal 13 al 14 aprile 1889
      in età di 25 anni
      vilmente scannata dal marito
      che tosto anche il padre di lei
      trucidava
      le filatrici cremonesi
      a perenne rimpianto
      della compagna di lavoro
      ed a deprecazione di scelleratezza
      che tutto un mito popolo offese
      questo ricordo
      p.p.
      Parole più che mai attuali. A presto. Marco

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      • Nel 1889 ? Ma già son passati 136 anni …Beh … è un caso di cui non ho mai sentito parlare e forse il femminicidio era già iniziato da tempo solo che non c’ era la risonanza che diamo adesso a questi incresciosi ,incredibili ed efferati omicidi. Cercherò su Google per i particolari.Buonanotte ,a domani Marco …🙏🏻🥰🙋🏻🌃

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  5. Non è mai saggio infierire su chi è in condizione d’inferiorità. Frustrazione e rabbia vanno a braccetto, in questo caso per ambedue i protagonisti, pur con motivazioni diverse. Un racconto molto ben scritto che a me ispira grande pietà sia per il povero che per la contessa.

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