San Basilio di Ariano nel Polesine. Frammenti di storia

In un angolo del Veneto meridionale, che si allarga all’interno del Parco del Delta del Po, è ancora possibile percorrere delle stradine, lastricate dai filamenti di una fitta tessitura storica.

Il viandante curioso che si lascia guidare dalla bellezza di questi sentieri può imbattersi in qualcosa di inaspettato, celato dai campi coltivati e dalle distese di frutteti e pioppeti.

L’inatteso è una piccola località di nome San Basilio, nel comune di Ariano nel Polesine, il cui nome deriva dall’intestazione di un oratorio, che svetta sopra una duna, testimonianza fossile dell’originaria linea di costa di un migliaio di anni fa.

La dedicazione dell’edificio religioso rimanda a Basilio di Cesarea, santo del IV secolo che “fu detto Magno per dottrina e sapienza, insegnò ai suoi monaci la meditazione delle Scritture e il lavoro nell’obbedienza e nella carità fraterna e ne disciplinò la vita con regole da lui stesso composte” (dal Martirologio Romano, 2 gennaio).

La chiesetta e la sua borgata sono sorte in un’area che ha restituito negli ultimi decenni numerose testimonianze archeologiche, attestandovi un fiorente insediamento commerciale, frequentato fin dal VI secolo a.C. da Etruschi, Venetici e Greci.

Con la progressiva romanizzazione delle terre venetiche del II secolo a.C., si impiantò un circuito viario, che collegò le maggiori entità urbane del Nord-Est. Tra queste la Via Popillia, stesa nel 132 a.C. dal console Publio Popillio Lenate, che costeggiava la costa adriatica dalla colonia romana di Rimini e conduceva alla città di Aquileia.

In corrispondenza di San Basilio venne fondata una mansio, una stazione che la Tabula Peutingeriana, ricorda come Mansio Hadriani.

La Tabula è una copia medioevale di un Itinerarium risalente alla metà del IV secolo d.C.. Si compone di 11 segmenti che si ordinano in un rotolo in pergamena sul quale erano indicate tutte le strade, le stazioni intermedie, i toponimi dei luoghi e le distanze misurate in miglia.

All’interno di questa stazione si svilupparono intorno altre infrastrutture, atte ad offrire quei servizi richiesti dai viaggiatori e differenti da quelli postali, fiscali ed amministrativi, come il pernottamento e la custodia dei carri e cavalli; il che facilitò l’edificazione  di alcune ville rustiche, come quella evidenziata negli scavi nella Tenuta Forzello.

In età imperiale, intorno al I secolo d. C., da San Basilio si distese un nuovo asse viario, che incrociava le attuali località di Porto Viro, Loreo e Cavarzere e si congiungeva con la Via Annia nei pressi di Mestre.

La sempre maggiore presa che il Cristianesimo veniva ad avere sulla popolazione, in particolare rurale, qui si manifestò verso la fine dell’Impero con la costruzione di un complesso battesimale, tra i più antichi dell’intera provincia.

I reperti delle ultime campagne di scavo sono oggi custoditi in parte nel Centro Turistico Culturale di San Basilio, inaugurato negli anni ’90, dove è possibile anche farsi un’idea precisa del fenomeno delle dune fossili e l’evoluzione del delta del Po nel corso dei secoli mediante l’uso di plastici e postazioni multimediali.

Come detto, il paesotto deve il suo nome dall’intestazione della chiesetta al santo orientale, suggerendo una fondazione molto antica.

Tuttavia, al di là di questa dedicazione, e volendo attenerci ai documenti, il primo riferimento della chiesa risale al 1540, quando il vescovo Ferretti la menzionò nel suo resoconto delle condizioni in cui versava la diocesi di Adria.

Plebs et ecclesia antiquissima Sancti Basilii inter silvas nunc a populo derelicta.

L’edificio è di piccole dimensioni e si osservano numerose manomissioni, operate nel corso del tempo. L’unica navata raggiunge i 16,80 metri e una larghezza di 7,05 metri, mentre l’abside, semicircolare, presenta un raggio di metri 4,60. La tessitura muraria della facciata è impreziosita da una bifora con una colonnina centrale in legno.

In bella vista, appena fuori dalla chiesa, una chicca: un sarcofago in pietra.

Le fantasie popolari vollero che al suo interno vi fossero le ossa dei paladini di Francia, forse un ricordo, nel quale sono confluiti eventi lontani e reali, quale la guerra dei Franchi di Pipino contro i Veneziani nel IX secolo.

L’episodio si fissò nel toponimo, che designò per lungo tempo le dune costiere, ricordate come le Tombe di Pipino.

Ma si sa, che ogni leggenda è come un fiume in piena capace di trovare sempre nuove foci.

Nel 1603, il visitatore pastorale Flavio Perotti volle vedere da vicino il sarcofago e gli si avvicinò tanto da toccarlo. L’osservò con attenzione e, con sua sorpresa, intravvide un’iscrizione antica.

Per quanto logorata dal tempo e dall’incuria, l’ecclesiastico riuscì a leggerla:

Hic divi Tunini ossa quiescunt frangere qui vult sicut Judas anathema sepulchri.

Purtroppo, l’iscrizione, dopo il suo rinvenimento, scomparve. Pertanto l’unico supporto rimane la testimonianza del religioso.

All’ombra della chiesa si tramandano leggende non soltanto relative al sarcofago, ma anche racconti tradizionali di avvenimenti sul filo dell’irreale, neppure molto lontani nel tempo, arricchiti o alterati dalla fantasia popolare. E’ il caso di una mezza colonnina dai presunti poteri taumaturgici.

Viene citata per la prima volta nel 1635 dal vescovo Germanico Mantico, in seguito ad una sua visita pastorale:

In un cantone della detta chiesa si ritrova una mezza colonna di marmo mischio con un capitelletto rotto, e sopra una crocetta: questa si dice essere miracolosa per quelli che hanno dolor di capo.

Per un centinaio di anni, parrebbe che le presunte virtù miracolose non siano mutate nel corso del tempo, tanto che nel 1718 il vescovo Varia constatò che la colonna trasudava olio miracoloso.

Malauguratamente, decenni dopo, il nuovo vescovo Soffietti scrisse che l’unguento miracoloso non stillava più come una volta.

L’alto prelato volle far trascrivere dei versi, che ricavò da un’antica pergamena, che, tanto per cambiare, andò perduta:

Transmissum hic nobis oleum polluta negavit causavit tantum foemina sola malum (profanata, cessò di fornire in questo luogo, una sola femmina causò un male così grande).

Variante più recente racconta che una volta le puerpere con problemi di allattamento fossero solite recarsi di notte all’interno della chiesa. Si scioglievano le trecce dei capelli e intingevano le ciocche nell’umore che trasudava dalla colonna, implorando il ritorno del latte.

 

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