Methamauco, una piccola Atlantide della Laguna Veneta

Due composizioni dal carattere filosofico con il loro intreccio meraviglioso rappresentano il fondamento di ogni testo occidentale, e non solo, che voglia trattare il mito di una qualsiasi civiltà perduta nel mondo antico. I personaggi, che si muovono negli orditi delle due opere, hanno dato prova di riuscire ad abbattere l’evanescente barriera tra realtà e fantasia, ma è nulla se comparato al bocciolo, di incredibile bellezza e di straordinaria seduzione, rappresentato dall’interpretazione letterale ed anagogica di un mito riportato; peraltro riconosciuto senza alcuna difficoltà da chiunque, anche da chi non si è mai accostato al mondo, che solitamente viene definito classico.

Tutto prende forma nella mente dell’oramai vecchio e stanco Platone, il discepolo del sapiente Socrate, allorché stava dando una forma organica alla sua dottrina filosofica e sociopolitica, che interpretava il mondo, la natura e la società, mettendo mano a una delle ultime opere della sua più che mai feconda attività letteraria e filosofica.

Il Dialogo, passato alla storia con il nome Crizia, è legato idealmente ai precedenti La Repubblica e il Timeo, per quanto trovino una loro realizzazione in un tempo inconsueto, che non è quello del mito, ma ci si avvicina molto.

Nel Timeo e nel più tardo Crizia, strutturato come una continuazione del precedente Timeo con la presenza degli stessi personaggi, Platone ci rende spettatori di una conversazione tra eminenti personalità della cultura e della politica di allora: Socrate, Timeo, Crizia ed Ermocrate.

Crizia, zio materno dello stesso Platone, s’inserisce nel dialogo, riannodando la leggenda di una terra perduta. Racconterà di due grandi città, capitali di grandi imperi, che entrarono in conflitto tra loro: Atene e Atlantide, la città che a causa di cataclismi s’inabissò nelle profondità, sparendo per sempre dalla storia.  Atlantide o, meglio, l’isola di Atlantide “era a quel tempo più grande della Libia e dell’Asia, mentre adesso, sommersa da terremoti, è una melma insormontabile…che impedisce il passo a coloro che navigano sin qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre”, severa ma giusta punizione degli dei dell’Olimpo per la cupidigia e la bramosia dimostrate dai suoi abitanti.

Senza voler entrare nella esegesi del mito platonico, tuttavia nella pletora delle interpretazioni o delle più semplici descrizioni, molte delle quali accavallate nella ridda delle ipotesi più diverse e fantasiose, talune di queste hanno voluto ridisegnare gli eventi, attraverso una narrazione zigzagante, indicata come il Pensiero della Fine o, in altri casi, Pedagogia delle Catastrofi, che si snodano lungo momenti utili a produrre il cambiamento voluto. In presenza di un mondo violento, incapace di generare un qualsiasi processo di stabilizzazione, il primo passo volto alla ricostruzione della società consiste nell’identificare la Comunità responsabile di quella situazione. In seguito alla sua eliminazione con tanto di catastrofe naturale – catarsi inevitabile -, si riconquistava l’equilibrio tra il bene e il male, con una successiva ritualizzazione dell’intero processo.

Si è potuto scorrere questo processo narrativo in molte delle cosiddette civiltà scomparse nelle latitudini e longitudini più diverse, come, ad esempio, la nota vicenda di Rapa Nui, altrimenti conosciuta come l’Isola di Pasqua, l’isolotto nell’oceano Pacifico.

In piccolo, molto in piccolo, anche la storia della Serenissima cela una sua più modesta Atlantide con le relative dinamiche eziologiche, sprofondata nelle acque della laguna veneta. La vicenda ha dato vita nel corso del tempo a numerosi voli pindarici della fantasia, come se a Venezia e nella sua Laguna non mancassero già opere d’arte dalla straordinaria bellezza o una natura da mozzare il fiato. Comunque sia, moderni affabulatori amanti del mistero vi hanno costruito sopra di tutto e di più. Non è la prima volta e non sarà certamente l’ultima.

Ancora oggi, molti turisti s’aggirano tra le calli di Venezia agognando di raggiungere la chiesa di San Barnaba nel sestiere di Dorsoduro. L’edificio religioso, oggi spazio espositivo dedicato alle macchine leonardesche, è un continuo via vai di persone con il desiderio non tanto velato di scendere nelle viscere della chiesa, dove sono più che mai convinti di trovare delle reliquie dell’Ordine medioevale dei Templari; e tutto ciò per un celebre episodio cinematografico, nel quale l’affascinante professore Indiana Jones era alle prese con l’ennesimo mistero. Una scena davvero intrigante, senza dubbio. Purtroppo, si deve apporre anche un ma grande quanto una montagna. Certo, l’Ordine Templare era di casa a Venezia, come poteva non esserlo d’altra parte, ma la città lagunare non ha mai posseduto un reticolo fognario, come quello realizzato nella pellicola cinematografica. La città ha preso corpo sopra delle fondamenta, costituite da una rete fittissima di enormi pali, per cui buona parte dell’ambientazione cinematografica delle scene compiute a Venezia era frutto di una sapiente mano di un art director di Hollywood, la fabbrica dei sogni del cinema.

Dopo l’infuriare di una tempesta, forse una buriana più forte delle altre, l’alba di un giorno imprecisato del XII secolo il panorama di un tratto della laguna veneta avrebbe fatto strabuzzare gli occhi abituati a quegli scorci. Il cielo era ancora plumbeo, tutto era silenzioso e immobile, come doveva essere la laguna. Stormi di uccelli grigi e bianchi volavano incessantemente sopra spazi di acqua di mare, che fino a qualche ora prima davano spazio al centro lagunare di Methamauco, capitale del ducato veneziano dal 742 all’811, svanita dalla storia, inghiottita nelle profondità delle acque nella bruma lagunare.

La narrativa della scomparsa della città lagunare si è avvalsa di molti contributi: mezze verità, allusioni, spinte ideologiche e fenomeni naturali, quali la subsidenza e l’eustatismo, accompagnati dalla possibile azione sismica. Ma come è stato possibile che un centro di scambi ricco e fiorente sia scomparso senza lasciare tracce reali nella memoria storica? Che cosa causò la sparizione?

Il primo ricordo della località di Methamauco ci costringe a fare un bel salto fino alla lontana antichità, al celebre geografo Strabone, vissuto durante l’età augustea, che ha lasciato pagine a dir poco indispensabili per la comprensione topografica delle antiche terre venetiche. La sua testimonianza dell’agro patavino, dell’odierna Padova, si avvaleva anche di tre fonti fondamentali, purtroppo andate perse. La prima era quella di Polibio, lo storico famoso che aveva anche visitato le terre venetiche; la seconda di Artemidoro, geografo del I secolo a.C.; la terza, infine, Posidonio, lo scienziato e filosofo, pure lui conoscitore dal vero dei territori venetici. Dopo aver ricordato la bellezza della città e il benessere della popolazione, Strabone riporta che la città poteva essere raggiunta direttamente dal mare, risalendo “per 250 stadi (poco meno, poco più di 45 km.), a partire da un grande porto, un fiume che attraversa le paludi. Questo porto si chiama Medoaco, come il fiume stesso”.  (Geographia V 1, 7, 215).

La successiva, ma più tarda testimonianza è conservata nelle pagine di un’opera storica di un tale Diacono Giovanni, il cui profilo è incerto, anche se viene per lo più identificato nell’ambasciatore del doge Pietro II Orseolo (991-1008) presso l’imperatore Ottone III. La sua cronaca, che apre la storiografia veneziana, contiene numerosi elementi leggendari o appartenenti a epoche diverse da quelle raccontate, ma, a sua volta, include tracce e indizi, capaci di orientare il lettore verso la comprensione delle origini del ducato veneziano. In essa, La località metamaucense viene citata nell’elenco delle “insulae” fondanti il ducato veneziano, che si estendeva da Grado a Cavarzere. Il testo, scritto in latino, recita: “Nona insula Metamaucus dicitur, que non indiget aliqua urbium munitione, sed pulchro litore pene ex omni parte congitur, ubi auctoritate apostolica episcopalem sedem populi habere consecuti sunt”. (Giovanni Diacono, I, 6, 55-56).

In effetti, le poche righe dicono ben poco, ma è possibile tirarne fuori qualcosa lo stesso. L’antica città era dotata di una struttura muraria fortificata ed era cinta quasi da ogni parte da un lido; e, come ogni centro urbano che si rispettava, la popolazione ebbe, per disposizione dell’autorità apostolica, la sede episcopale, peraltro testimoniata dal “Chronicon Gradense”, testo risalente al XII secolo, che cita Torcello, Malamocco, Olivolo, Jesolo, Cittanova Eracliana, Carole (Chronicon Gradense Origo, 43) quali sedi vescovili.

Tra il 742 e il 743, con la scelta del nuovo duca Deusdedit, figlio del duca Orso, appartenente all’aristocrazia tribunizia bizantina, le oligarchie locali delle comunità lagunari decisero di trasferire la sede ducale da Cittanova a Methamauco, tentando così di porre fine alle lotte fratricide tra le famiglie nobili di Jesolo e Eraclea: “Eisdem etiam diebus Venetici, magistrorum militum prelibate prefecture dignitatem abominantes, ut quondam, ducem, videlicet Deusdedem, sepedicti Ursoni ypati filium, in Metamaucense insula sibi crearunt” (Giovanni Diacono, I,  ). In ogni modo, il tentativo di instaurare un assetto politico stabile non diede i frutti sperati e si aprì la storia di una successione quasi ininterrotta di congiure e complotti. Intorno al 755, il duca Deudedit rimase vittima di una congiura, compiuta da un tale Galla e accecato, come ricorda sempre Giovanni Diacono: “a quodam infideli, Galla nomine, eius avulsi sunt oculi” (…). Un anno dopo, toccò a Galba ad essere accecato e ucciso, in seguito ad una rivolta popolare. Il suo posto fu preso da Domenico Monegario, esponente dell’aristocrazia di Malamocco, che, però, finì per essere deposto e accecato nel 764. Fu la volta di Maurizio Galbaio, che, accolse la morte per cause naturali sul proprio letto nel 787, dopo aver associato al governo il figlio Giovanni, il quale fece la stessa cosa con il figlio Maurizio.

Giovanni e Maurizio Galbaio impressero la loro azione politica verso un netto riavvicinamento all’impero di Costantinopoli, ma fu la nuova situazione politica createsi in Italia nel IX secolo, allorché Carlo Magno, liquidati i Longobardi, giocoforza s’inserì nei rapporti di forza presenti nella penisola italiana e, soprattutto, con l’impero bizantino, il che poneva le terre lagunari tra l’incudine e il martello. A sua volta, le Comunità venetiche presero a dividersi animosamente in due fazioni, l’una filoccidentale o filo franca e l’altra lealista verso Costantinopoli.

Il patriarca di Grado, Fortunato, succeduto a Giovanni filo franco, assassinato dalle milizie veneziane facendolo precipitare da una torre, aveva più di una ragione per essere impaurito e di fare la stessa fine del suo predecessore; quindi, pensò bene di trovare un valido aiuto nell’Impero franco e, così, cum grano salis, nell’803, si diede alla fuga, raggiungendo la corte di Carlo Magno, dal quale ottenne le necessarie assicurazioni, oltre ai privilegi per la sua stessa chiesa. Le inevitabili tensioni della politica interna veneziana avevano avuto delle ricadute verso posizioni estreme, radicali, senza che nessuno alzasse il ditino per dare lezioni sul “senso di responsabilità”.  L’essenza carsica delle due distinte fazioni non poteva permanere in quell’equilibrio instabile ed incerto e sarebbe stato sufficiente un nonnulla, una piccola variazione delle condizioni iniziali per alterarlo. Cosa che avvenne puntualmente con la partenza precipitosa del patriarca Fortunato, che generò una reazione a catena, provocando la fuga dei maggiorenti della fazione filoccidentale dalle insicure terre venetiche, trovando un sicuro rifugio a Treviso. Qui, in aperta opposizione al duca in carica Giovanni Galbaio, gli insorti elessero Obelario, tribuno metamaucense, il nuovo timoniere del ducato lagunare.

Nell’804, fu la volta di Galbaio, del figlio e del vescovo Cristoforo a dover abbandonare la laguna e prendere la via dell’esilio.

L’efficacia dell’azione politica franca nelle terre venetiche fu sostanzialmente convalidata con le dinamiche relazionali portate avanti con attenzione. Carlo ammise alla corte i nuovi maggiorenti del ducato veneziano, avvalorando così la loro autorità. L’episodio venne raccolto dagli Annali Franchi: “Venerunt Villeri et Beatus Duces Venetiae, nec non et Paulus Dux Jaderae, atque Donatus ejusdem civitatis Episcopus, Legati Dalmatiarum, ad praesentiam Imperatoris cum magnis donis. Et facta est ibi ordinatio ab Imperatore de ducibus et populis tam Venetiae, quam Dalmatiae” (Annales regni francorum, 120-121).

Le milizie veneziane assediarono e distrussero la città di Eraclea, capitale della fazione filobizantina, e, poco più tardi, Obelario inviò una flotta in Dalmazia per dare man forte ai Franchi, tesi a sottrarla all’Impero bizantino.

Forse, sono da riferire proprio questi anni gli antichi affreschi, rinvenuti un paio di anni fa, che provocarono un clamore mediatico di non poco conto. Le pitture, che decoravano l’abside centrale  della Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello, tra il IX e il X secolo, prima della successiva decorazione bizantina a mosaico, raffigurano la Vergine, un’ancella e san Martino.

Sulla scorta della celebre frase tratta dal film “The Butterfly Effect”, secondo la quale “il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”, trova una sua conferma con quanto accadde nel febbraio dell’806.  In quei giorni, a Thionville, Carlo Magno predispose la suddivisione dell’Impero in tre parti, da assegnare ai figli.  Al figlio Pipino sarebbe toccata la Baviera, l’Alemannia, parte della Carinzia e l’Italia, compresa la Venezia, l’Istria e la Dalmazia, dimenticando i diritti di Bisanzio su quest’ultimi territori e, operando un ribaltamento delle posizioni, ponendoli sotto la sfera influenza franca. Mesi dopo, sul finire della stagione buona per la navigazione, la flotta bizantina comparve in laguna, senza trovare alcuna resistenza.

Il patriarca Fortunato, vedendo la mal parata, prese la via degli amici Franchi, mentre Obelario e suo fratello rimasero al loro posto e aspettarono il corso degli eventi, pensando che tutto si svolgesse nel migliore dei modi. Intanto, Niceforo non era rimasto con le mani in mano, come la corte franca, che pose mano alla prima stesura della tregua tra i due Imperi.

Niceta, l’ammiraglio bizantino, aveva preso la via del mare con il trattato da ratificare, quando comparve all’improvviso in laguna. Beato, il vescovo Cristoforo, il tribuno Felice e altri membri delle famiglie più in vista del patriziato veneziano furono portati via con sé come ostaggi, mentre Obelario fu lasciato al suo posto, forse per il semplice motivo che il greco non poteva impegnarsi fino in fondo contro le forze veneziane. Così si pensò bene di comperarlo, lusingandolo con delle onorificenze e delle qualifiche nobiliari. Era pacifico che la partita fosse ancora aperta. Si aspettava solo il momento giusto per regolare i conti, una volta per sempre.

Ratificato il trattato dall’imperatore di Costantinopoli, la flotta bizantina attraccò nuovamente in laguna. La guidava l’ammiraglio Paolo di Cefalonia, incaricato anche di perfezionare gli accordi con il re d’Italia Pipino, ma qualcosa dovette andare storto. L’ammiraglio bizantino salpò all’improvviso e fece ritorno a Bisanzio. In un primo momento i Franchi rimasero alla finestra, per capire come evolvessero le cose, soprattutto perché in laguna aveva ripreso forza la fazione filo franca, poi, visti i tentennamenti venetici, pensarono di risolvere la questione con le armi. Pertanto, Pipino, “spinto dalla perfidia dei duchi dei venetici”, ordinò alle sue milizie di assalire il ducato, attaccandolo con le sue milizie dal confine meridionale, cercando di raggiungere direttamente Malamocco e rompere la coesione delle Comunità lagunari, magari intrappolando l’eventuale resistenza in sacche isolate e chiudendo i corridoi di spostamento chiave.

Le fonti franche a questo proposito sono piuttosto chiare. Dopo un attacco simultaneo da terra e mare, i maggiori centri furono conquistati e solo l’arrivo della flotta bizantina evitò il disastro più totale per i venetici. Con le uova ormai rotte nel paniere, i franchi si trovarono nella necessità di ritirarsi senza subire gravi danni.

Ben diversa la versione veneziana dell’avvenimento. Giovanni Diacono a questo proposito riferisce della bramosia del franco e del suo farsi avanti con fatica tra le barene e le velme. Alla fine, gli invasori riuscirono a raggiungere “…ripas Methamaucensis portus situatum…” (Dandolo, 132), ma l’offensiva non diede i frutti sperati, poiché i Venetici avevano spostato la sede ducale a Rivoalto e, allo stesso tempo, dato una sonora lezione ai franchi. La flotta dei Veneti, con un abile stratagemma aveva condotto i vascelli franchi a incagliarsi nei bassifondi della laguna e gli equipaggi massacrati, tanto che il canale venne ricordato con il l’idronimo Canal Orfano, per ricordare il sangue di tanti padri di famiglia. A questo episodio è legata una curiosa notizia, che sa tanto di leggenda metropolitana. Una matrona di Malamocco suggerì agli invasori come raggiungere Rivoalto e conquistarla. Era sufficiente chiamare un centinaio di persone del luogo, che sapevano dove mettere le mani e conoscevano a menadito i posti, per stendere un lungo ponte di zatteroni e far passare l’esercito, ma il tutto si risolse in un disastro. Al passaggio delle milizie, i pontoni si aprirono, facendole cadere in acqua e annegare.

Un racconto davvero intrigante, che, magari, meriterebbe degli approfondimenti!    

Carlo Magno, dopo la morte del figlio Pipino, condusse di persona le trattative per la fine delle ostilità. I territori veneti e dalmati vennero restituiti a Bisanzio, mentre l’imperatore Michele I, nel frattempo succeduto a Niceforo, riconobbe il titolo imperiale di Carlo Magno, venendo con ciò a specificare l’esistenza di due aree ben definite, a capo delle quali vi erano due imperatori in un rapporto di pariteticità.

Il nobile Arsafio, inviato dalla corte levantina per discutere sugli ultimi punti del trattato, arrivò con la flotta dentro la laguna, senza trovare alcuna resistenza. Messa via, almeno per il momento, l’indebita ingerenza dei Franchi, tutti i nodi vennero al pettine. Obelario fece un salto nel vuoto, tentando di trovare un sostegno nei suoi vecchi amici continentali. La posta in gioco era troppo alta e nessuno se la sentì di rimestare nuovamente le carte. L’uomo fu riconsegnato ai Bizantini, che lo condussero in catene a Bisanzio. Il fratello Beato se la cavò con il semplice esilio a Zara. Dopo di che, in laguna, fu eletto il lealista Agnello Particiaco, dell’aristocrazia di Eraclea, città filobizantina. Le cose sembrarono andare per il verso giusto, fino a quando, una ventina di anni dopo circa, il buon Obelario fece il suo ritorno in laguna, sbarcando in piena notte a Vigilia o Abbondia, una città del contado lagunare, scomparsa anch’essa senza lasciare traccia del suo passato, non lontana da Malamocco.

Il malcontento serpeggiante nei confronti del duca Giovanni Particaco gli si raccolse subito attorno. Forse, non fu ininfluente una spintarella del nuovo re d’Italia Lotario, subentrato a Pipino. Fatto sta, che le milizie di Vigilia e di Malamocco si schierarono con Obelario. Giovanni reagì, distruggendo le due città ammutinate e quando ebbe in mano il capo dei rivoltosi, lo fece decapitare. La sua testa venne piantata su un palo, posto a Mestre sul confine tra il ducato e l’Impero, quale monito per il futuro. Tuttavia, per quanto indebolita, la fazione filo continentale non scomparve, ma si fece sentire di tanto in tanto, appoggiando sempre di più le spinte autonomistiche del ducato nei confronti dell’Impero bizantino.

Da quel momento l’antico borgo decadde, fino a sparire del tutto. Un silenzio che appare piuttosto sospetto, soprattutto perché l’idronimo della città poteva suonare veramente male alle orecchie dei veneziani, impegnati – in particolare tra il XII e il XIII secolo – a contrastare le mire espansionistiche della vicina Padova, dato che i nemici erano più che mai rilevanti nelle stesse origini del ducato.

In ogni modo, il silenzio sulla sua reale collocazione appare singolare, se non sospetto. Quindi, dove si trovava la città? Non lontano dalla località degli Alberoni, propaggine meridionale del litorale del Lido, vi è un’isola fortificata, conosciuta sotto il nome di Ottagono abbandonato, che avrebbe dovuto difendere Venezia dalle navi nemiche, eventualmente entrate in laguna dal canale di Malamocco.

Sopralluoghi e saggi hanno portato all’identificazione tutt’intorno dell’isola di una lunga serie di evidenze archeologiche sostanziali, che hanno portato ad ipotizzare nel sito il porto alla foce del fiume Brenta, come citato dallo scrittore Strabone. Inoltre, sulla scorta di successivi rinvenimenti, avvenuti a breve distanza, si è giunti a configurare il sito metamaucense una entità urbana e portuale estesa, dislocata nei lidi e isolotti contornanti una determinata area, dove la sede ducale, la chiesa e le strutture portuali più grandi dovevano aver trovato edificazione sulle terre più vaste. Un esempio della complementarità dei singoli luoghi potrebbe essere rappresentato ai siti adiacenti all’isola di San Servolo o, ancor più, da quello denominato Fusina 1, situato nel Canale dei Petroli, che conduce dalla bocca di porto di Malamocco al porto di Marghera. Benché la sua lettura sia resa complicata dallo stato pessimo di conservazione, gli studiosi sono riusciti a rinvenire, sotto tre – quattro metri il livello medio lagunare, allineamenti di pietra o di pali di legno, risalenti all’età romana, che dovevano appartenere a pontili d’imbarco e sbarco, vere e proprie strutture logistiche di un sistema più esteso, come quelle similari rinvenute nelle acque della vicinissima isola di Poveglia.

Elaborazione planimetrica Gruppo Archeologico Veneziano su rinvenimenti di E. Canal

Dall’esame dei materiali della vita quotidiana, ad esempio la ceramica, si è potuto stabilire, che, in alcuni casi, le strutture non superarono l’età antica, forse per lo stato d’abbandono o per le cambiate connotazioni geografiche. Perciò, se una parte dell’antica Metamauco potrebbe riferirsi a queste aree prettamente portuali, rimane ancora da capire dove potrebbe trovarsi il grosso della località, ovvero il sito interessato dalla presenza del palazzo ducale, della chiesa e delle residenze delle famiglie più abbienti; e, cosa non secondaria, comprendere che cosa gli sia accaduta, considerato che è pur sempre vera una grande verità, ben espressa dal titolo di un libretto di un grande storico francese, Henri-Irénée Marrou, ossia “La fin du monde n’est pas pour demain”.

A questo proposito, grazie ai molti rinvenimenti di superficie e ai più rari saggi archeologici, si comincia a delineare sempre più l’idea che il sito della Malamocco antica sia da identificare a stretto contatto con l’area definita dall’Ottagono abbandonato, l’isolotto a poco più di novecento metri dalla riva del Lido. Le chiare attestazioni di edifici, alcuni dei quali di notevole estensione, e di altre strutture fanno presagire prossime conferme a riguardo.

Per quanto riguarda il come mai..alcune testimonianze si dimostrano piuttosto interessanti. Su uno di questi, risalente al 1108, si legge che il doge Ordelafio Falier concedeva al monastero di San Cipriano di Malamocco di trasferirsi a Murano: “quia multis perturbationibus atque maris incommodis monasterii vestri habitaculum cotidianis terrarum defectibus imminui videmus” (A.S.C.V., S. Cipriano di Murano in Mensa Patriarcale B. 90). Una successiva testimonianza dello stesso anno, il patriarca di Grado Giovanni Gradenigo avvalorava la concessione del doge, motivandola sempre con le molte perturbazioni e i danni provocati dal mare. Risale al febbraio 1109, invece, il documento che riporta lo spostamento del cenobio benedettino delle suore dell’abbazia dei Santissimi Basso e Leone da Malamocco al convento di San Servolo, lasciato libero dai monaci benedettini, che avevano preso casa presso il monastero di Sant’Ilario. L’abate Pietro offre questa soluzione alla badessa Vita Marango, sempre per la stessa ragione: “propter multas perturbationes et maris pericula, quibus habitaculum vestri monasterii quotidianis defectibus imminuere videmus”. (F. Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, Venetiis, pasquali 1749, to. VII, pp. 107-108).

Dalla lettura delle fonti pervenute si può fare una prima conclusione. Le strutture romane, risalenti alla tarda Repubblica e imperiale, erano ormai degradate e solo poche di esse furono adoperate in età altomedioevale.

Infine, nel 1107 si giunse alla fondazione della Malamocco, che corrisponde più o meno all’attuale cittadina, amministrata assieme all’isola di Poveglia da un Podestà.

Per ultimo, lo stesso doge Falier, che si era preoccupato della situazione del monaster di San Cipriano, avvallò di suo pugno, con diploma datato 10 aprile 1110 esottoscritto da 19 dignitari, la decisione del vescovo Enrico Grancarolo di portare la sede a Chioggia, divenendo di fatto il primo vescovo di Chioggia, pur conservando fino al 1119 il titolo di vescovo di Malamocco. Assieme alla sede vescovile e all’intero Capitolo, in quell’occasione, vennero portate a Chioggia anche le reliquie dei santi patroni Felice e Fortunato, due fratelli decapitati, durante la persecuzione ai cristiani, compiuta dall’imperatore Diocleziano, nei pressi di Aquileia nell’anno 305. Le reliquie dei martiri, che sono ancora custodite nella cattedrale chioggiotta dedicata alla Vergine, sono condivise con la loro città natale, Vicenza – intrigante il cenobio di Ammiana intitolato ai due martiri, dato l’investimento torcellano e non metamaucense -.

La fine di Malamocco non fu causata da un evento catastrofico improvviso, come raccontato dalla leggenda, ma dal continuo logorio delle acque, che erose sempre più importanti porzioni del territorio. Tuttavia, la popolazione e le istituzioni più importanti rimaste in città poterono abbandonarla in tutta sicurezza. In seguito, forse, una perturbazione più incisiva rispetto a quelle del passato, concluse definitivamente la vita della città, sommergendola per sempre.

 Alcuni la vollero vedere in taluni luoghi chiamati con il termine “tegnùe”, che in veneto vuole dire trattenute, volendo con ciò ricordare il continuo impigliare dei tramagli o i grossi squarci sulle maglie delle reti. In realtà, le Tegnùe non erano i resti romanticamente identificati dai pescatori, ma delle conformazioni simili alle barriere coralline, presenti lungo l’arco adriatico ad una profondità variabile tra i 15 e i 40 metri, in particolare davanti a Chioggia, a Pellestrina, al Lido e al Cavallino Treporti. Tremila anni fa, all’incirca, le alghe rosse calcaree, della famiglia delle Corallinaceae, hanno dato vita a delle barriere molto simili a quelle tropicali.

Dunque, le Tegnùe non sono i resti della città ma un fantastico e insperato regno regalato dalla natura, gioia di molti subacquei e della fauna che qui cresce tranquilla.

Nonostante ciò, il ricordo della città scomparsa appare attribuire un senso alla storia di quella attuale, narrandone le tragedie del passato, cioè che per quanto ci si possa dar da fare è impossibile che la verità rimanga nascosta per sempre. Prima o poi se ne esce fuori.

124 commenti su “Methamauco, una piccola Atlantide della Laguna Veneta

  1. Wow, the quest for power seems to cause a lot of death to this day. This is a lengthy read but well worth it. Mention of the frescoes at the Basilica of Santa Maria Assunta in Torcello (Amalfi Coast) stood out. While there I would have liked to have gone inside the Basilica but it was closed at the time. Charlemagne and the Byzantine era are a prime example of a balance between good and evil like you discussed in this post.

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