Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenem…
Portobuffolé, un piccolo borgo veneto di poco meno di mille anime, si presenta al visitatore raccolto in sé, nelle sue vestigia secolari, come se fosse un perfetto set di un film di cappa e spada. Si trova incastonata tra il trevigiano e il friulano, a pochi chilometri dall’antichissimo centro paleoveneto di Opitergium, l’odierna Oderzo e dalla friulana Pordenone. Qui, all’ombra dei palazzi risalenti all’Età di mezzo e, poi, sotto l’ala protettrice della Serenissima, le genti rurali e le antiche famiglie feudali hanno lasciato delle impronte indelebili della loro attività materiale e spirituale, tanto da costruirvi uno scrigno prezioso, capace ancora oggi di suscitare delle profonde emozioni.
Il corso del fiume Livenza è stata l’anima dell’abitato, il cui carattere navigabile ha caratterizzato la vita e i commerci per le epoche passate, quindi non un limite, un confine bensì visione di nuovi orizzonti. Oggi, la cartolina del panorama appare ben diversa, rispetto ai secoli trascorsi. Nel 1924, la Livenza è stata allontanata dall’abitato e il suo corso si è interrato, anche se è ancora possibile averne un’idea sotto il Ponte Friuli, dove s’intravvede l’antico alveo, oltre alla romana mascherona della verità, fissata alla meno peggio a quelle che sembrano i miseri resti delle fortificazioni di epoca medioevale.
Le testimonianze letterarie e cartografiche del passato, in particolare dell’età medioevale, riferirebbero che le origini della cittadina dovrebbero essere ricondotte alla sua funzione materiale. Non a caso l’abitato sulla Livenza è ricordato come “Castro Portus Buffoledi” o “Castellarium Portus Buvoletti”, una piazza fortificata su un canale.
La Livenza, che segna uno dei confini immateriali tra Veneto e Friuli, ha fatto sì che Portobuffolé possedesse una particolare duplicità e fin dai tempi più remoti.
L’ipotesi non peregrina di una “statio” di epoca romana presso il guado del fiume, in località Settimo, ha creato non poche aspettative e delle date suggestioni, che vorrebbero retrodatare le origini del borgo a secoli ben indietro nel tempo. Tuttavia, al momento non sono pervenute delle evidenze archeologiche che lo attestano con una certa autorevolezza, al contrario delle attestazioni successive, che non mancano, anzi. In quegli anni, Portobuffolé indossò quella veste, la sua Forma Urbis, che la contraddistinguerà nei secoli a venire e che, solo l’azione iconoclastica dei tempi moderni e qualche speculazione edilizia – che non manca mai -, cambierà notevolmente, con lo smantellamento delle mura, avvenuto a partire dal XVIII secolo, o con la costruzione di nuovi edifici all’interno del nucleo storico.
Ci misero sopra gli occhi il Patriarca di Aquileia, il vescovo di Ceneda e di Treviso, nonché le grandi famiglie dei da Camino e dei Carraresi, ma fu sotto la dominazione della Serenissima, che il borgo ebbe il massimo splendore, grazie al commercio del sale e del legname. Gli venne riconosciuto il titolo di città con tanto di stemma araldico, colonna e Leone di San Marco. Il governo cittadino si avvalse di un podestà, di un Ordine dei Nobili, un Consiglio Civico e uno popolare.
Il centro storico vero e proprio conserva dei piccoli gioielli di quella che fu la Marca Gioiosa. Tra queste vi è la cosiddetta Casa di Gaia, la letterata che ha saputo gareggiare con i maggiori ingegni dell’epoca. Aveva una bellezza marcata e aveva della propria vita – costellata da adoratori e di detrattori – una leggenda. Di lei, sposa del conte Tolberto e figlia di Gherardo, signore di Treviso, il celebre letterato Dante Alighieri, così volle ricordarla:
“l buon Gherardo
( …) per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia”
(Dante, Divina Commedia, Purgatorio, Canto XVI).
La casa di Gaia è la classica torre di epoca medioevale e si suddivide su quattro piani, ancora in buono stato. Il suo ingresso avviene attraverso un portale di pietra, sopra il quale si osservano tracce di colore rosso. Il soffitto del piano terra è in legno e l’accesso ai piani superiori avviene attraverso scale di legno moderne, dato che in epoca medioevale queste erano mobili e, in caso di bisogno, venivano tirate su.
L’affresco lacunoso del piano primo risale al Quattrocento e mostra delle figure umane: due uomini, di cui un vecchio, e una donna, riconoscibile dai capelli biondi acconciati secondo la moda del momento.
Al piano superiore, un corridoio si apre su quattro stanze ed è del tutto affrescato. L’episodio iniziale raffigura un ragazzino che si appresta andare a scuola, accompagnato da un servo e da un cane. Sulla parete di destra sono ritratti sei uomini, che sono stati identificati come le arti e le scienze. La parete di sinistra si vedono degli armati con panoplie di diversa foggia. Si scorgono delle città, alcune delle quali parrebbero essere fittizia, stando alle interpretazioni più recente, mentre una, quella posta sopra una porta, raffigurerebbe Portobuffolè. Su un altro affresco, nei pressi della finestra, due figure umane sono identificate come Gaia e di suo marito Tolberto, ma vi è chi vi abbia visto, invece, la coppia Achille e la regina delle Amazzoni Pentesilea.
Ritornati all’esterno e ripresa la camminata sulle stradine ciottolate, dove è possibile ottenere qualche cenno di saluto dai non numerosi cittadini, mai ostili ai visitatori, si può continuare il viaggio a ritroso nei secoli, per quanto non tutto è stato restaurato nel modo migliore. Comunque sia, sono arrivati ai giorni nostri la Dogana, il Monte di Pietà, la Loggia comunale e il Duomo, all’interno del quale è possibile ammirare un crocifisso ligneo del Quattrocento. Vale la pena visitarlo. Consacrato il 22 ottobre del 1559, si presenta come un edificio severo e semplice. L’altare barocco con doppio tabernacolo è arricchito da due sculture che raffigurano i titolari e patroni della cittadina: San Marco, a destra, e San Prosdocimo, a sinistra. I due santi sono ritratti pure sul soffitto. Al centro della navata vi è raffigurato il “trionfo di San Marco”, mentre sulla porzione sovrastante l’ingresso San Prosdocimo è colto nell’atto del battezzare. Ancora, in prossimità del coro si osserva l’episodio del culto di San Tiziano, vescovo di Oderzo, sotto la benigna visione di Sant’Antonio e San Francesco. Tra le curiosità presenti al suo interno, oltre ai deliziosi altari, vi è un grande crocifisso ligneo del Quattrocento, che risente della scuola tedesca; e la mensa a forma di tomba, che custodirebbe le reliquie di San Gervasio, il martire conservato all’interno della basilica romana minore collegiata abbaziale prepositurale di Sant’Ambrogio a Milano.
Non sempre le cose sono come sembrano essere e nel caso del duomo questo motto sembra calzare benissimo, a proposito di una pagina a dir poco brutta.
In seguito all’editto di Treviso del 12 febbraio 1340, con il quale si ordinava l’allontanamento dai territori veneziani dei banchieri fiorentini, gli ebrei si ritrovarono ben presto a prendere il loro posto nell’attività feneratizia. A Portobuffolè si insediò una piccola colonia di ebrei ashkenaziti, fuggiaschi da Colonia, accusati di aver diffuso la peste all’interno della città. Nati come “pied noir”, come i tanti ebrei alla ricerca di una casa, di una patria nella quale potersi riconoscere, con il tempo assumono a pieno titolo un ruolo di primo piano nel panorama economico e sociale del paese. Per anni la coesistenza tra cristiani ed ebrei non diede problemi, anzi. È attestato sin dal 1464 l’esistenza di un banco di pegno gestito dalla Comunità ebraica. Inoltre, è documentato il rapporto con l’importante Comunità di Conegliano che fa presumere una parentela o coincidenza di interessi. Poi, si sa, l’invidia è una brutta bestia, non a caso uno dei sette vizi capitali. Nel marzo del 1480, gli ebrei di Portobuffolè furono accusati di aver compiuto un omicidio di carattere rituale. I malcapitati furono arrestati e torturati di santa ragione prima nelle segrete della cittadina, poi il processo venne spostato a Venezia, dove il 5 luglio tre di loro furono condannati a morte. La storiaccia aveva avuto inizio nel corso della Pasqua, quando un’anima pia denunciò al podestà Andrea Dolfin la scomparsa di un ragazzino di nome “Sebastiano Novello, figliuolo di Pietro da Seriate nel Bergamasco, fanciulletto fra i sei ed i sette anni, mendico sì e lacero delle vesti, ma ben nutrito, rubicondo in viso, e con biondi capelli”. (G. Tassini, Condanne Capitali, 1849, pg. 69). Il responsabile, o meglio, gli autori furono individuati negli ebrei del posto, che lo avevano rapito per impastare il suo sangue le azzime pasquali. Il corpicino esangue fu fatto sparire tra le ceneri di un forno. Il Tassini così descrive l’episodio, seguendo pari passo la tradizione che si era ormai cristallizzata sul fatto di Portobuffolé: “gli turarono la bocca con un fazzoletto, e postolo sopra uno scanno, lentamente lo finirono mediante coltelli e punteruoli. Poscia ne raccolsero il sangue in bacini, e con esso, mescolato al vino, confezionarono l’offe destinate a rallegrare il loro banchetto pasquale, abbruciando in pari tempo il corpo del fanciullo” (G. Tassini, ib. Pg. 70). Il tribunale di Portobuffolè li condannò, credendo in toto alle accuse e alle confessioni estorte con la violenza: “Il podestà Andrea Dolfin li condannò, uno ad essere arrostito, il secondo ad essere sagittato, ed il terzo ad essere fatto in parti da quattro cavalli” (G. Tassini, ib., 70). Gli imputati chiesero di essere nuovamente giudicati da un nuovo tribunale, quello di Venezia, ma le cose non cambiarono. Furono nuovamente giudicati colpevoli e condannati a morte. Il successivo 5 luglio, tra le due colonne di Piazza San Marco a Venezia la sentenza trovò triste esecuzione, mediante rogo; e fu così che Mosé, Yaakov b. Shimon Levi, e l’arcisinagogo di Portobuffolè Servadio morirono pubblicamente tra atroci sofferenze. Degli altri imputati, cinque ebbero miglior sorte, dato che furono semplicemente imprigionati e, in un secondo momento, banditi dal territorio della Serenissima; un altro, avvertito in tempo, riuscì a scappare, mentre un altro ancora, Giacobbe «de la barba» o «barbato» da Verona, non riuscì a reggere l’intera situazione e si suicidò in carcere. Tutta questa vicenda avrebbe assunto dei contorni grotteschi se non si fosse conclusa con una terribile tragedia, dato che tutto ruota intorno alla figura del piccolo Sebastiano, che non è mai esistito. Insomma, inventato in tutto e per tutto di sana pianta. Si è trattato semplicemente di un archetipo antisemita, che li accusava di utilizzare il sangue dei bambini, nel corso della Pasqua ebraica, come l’identico caso di Simonino di Trento – e di tanti altri -, avvenuto nel 1475, di cui si possiede la documentazione legata al processo. Il culto di questi bambini ebbe vasta diffusione attraverso testi a stampa e materiali iconografici e fu abolito dalle autorità ecclesiastiche solo di recente, intorno al 1965.
Stando alla documentazione dell’epoca gli ultimi echi della presenza israelita a Portobuffolé risalgono al 1607 e concernono la conduzione di un banco da parte della famiglia opitergina Luzzato.
Nel frattempo, a Portobuffolè gli eventi trovarono una piega conseguente a quanto stava accadendo a Venezia. Gli edifici della comunità ebraica furono sequestrati e, in qualche caso, cambiarono destinazione; e fu così che l’edificio che era stata una sinagoga divenne decenni dopo l’attuale duomo, dedicato a San Marco e a San Prosdocimo. L’identificazione della sinagoga non è stata accettata da tutti gli studiosi. È stato obiettato che la Comunità d’allora non avrebbe potuto permettersi un edificio così grande e, cosa non secondaria, l’edificio ecclesiastico era dedicato, oltre all’Evangelista, a San Prosdocimo, rifacendosi ad una cappella intitolata a santo patavino, attestata fin dalla fine del XIII secolo.
Di fronte si staglia il Fontego e la Torre Civica. Il primo edificio è il classico palazzo loggiato, risalente al XV secolo e qui gli abitanti si recavano per acquistare la materia prima per il pane e gli altri cereali ad un prezzo controllato dall’autorità pubblica in modo da evitare quelle speculazioni. Inoltre, era il deposito di stoccaggio per i cereali e il sale, che da Venezia si dirigevano verso il Cadore e viceversa. La scultura del leone di San Marco ricorda senza tanti giri di parole il possesso veneziano. Affiancata si fa vedere in tutta la sua imponenza la Torre Civica del X secolo, superstite delle sette torri fortificate dell’originario castello di epoca medioevale. Abitata sulle mura esterne da rumorose e simpatiche cornacchie, oggi la torre ha perso la destinazione di difesa o di prigione. Ospita manifestazioni culturali e un piccolo centro museale, dedicato alla Civiltà contadina.
Un’altra storia del tempo antico è la Dogana del sale, che risale al XVI secolo. Sbarcato e pesato veniva caricato sui carri bestiame e condotto nelle valli alpine. La piazza antistante è dedicata al mercante francese Adriano Beccaro, vissuto sul corso del XIV secolo. Vicino, a destra, faceva bella mostra di sé la Porta Trevisana, la vera e propria via d’accesso della cittadina, ma, purtroppo fu distrutta dalle truppe austro ungariche in rotta. Da qui si osserva la Caserma medioevale, rimaneggiata pesantemente in epoca rinascimentale, dove si possono ammirare resti di affreschi, che la critica ha voluto attribuire a Giovanni de Sacchis, detto “il Pordenone”, vissuto nel XVI secolo.
Vicino il Piazzale del Ghetto, con la casa dell’Arcisinagogo, tanto per capirci accanto al duomo. A quanto pare, dentro la Casa che fu di Donadio dovrebbe essere visibile una pietra, sulla quale sarebbe incisa una sacra Menorah, il candelabro a sette braccia, e alcune parole rituali. Adopero il condizionale, in quanto non sono riuscito a vedere alcunché. Non mi sembrava molto delicato o educato suonare il campanello, soprattutto all’ora di pranzo!
Poco distanti l’antico ospedale, la cui prima pietra fu posata nel 1362 e rimase aperto senza interruzioni fino al secondo anteguerra. La chiesa di San Rocco del XIV secolo ne funge da cappella e al suo interno vi è custodita una pregevole scultura, raffigurante la Vergine.
Una curiosità. Nel vicino cimitero, le spoglie di un aviatore ricordano l’ardimento dei piloti italiani e i voli su Vienna con a capo il “vate” Gabriele D’Annunzio. Il pilota era il tenente Vincenzo Contratti, abbattuto nei cieli del Prà dei gai il 27 ottobre del 1918.
Portobuffolé, un luogo dell’anima, dove è possibile girare per le viuzze, accompagnati solo da sé stessi. Qui, nel silenzio dei secoli, rotto dalla semplice sonorità della natura, è facile farsi catturare dall’atmosfera e, saccheggiando un titolo di un saggio, ascoltare le “voci di Gaia, l’eco dei versi d’una donzella gaia ed insegnata, prima rimatrice in lingua italiana” (Carla Rossi); magari, poco prima di porci nuovamente di fronte al duomo, ripensando ai tratti crudeli di un’umanità, in cui non si può fare a meno di riconoscersi.
Spero di poterci andare questo fine settimana. Utilizzerò le notizie del saggio per implementare le mie conoscenze sulla località.
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Un posto bellissimo, grazie per avermelo fatto conoscere.
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Grazie a te di aver letto l’articolo e di aver postato il commento. Alla prossima.
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Incantevole borgo molto caratteristico. Splendidi affreschi.
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