Methamauco, una piccola Atlantide della Laguna Veneta

Due composizioni dal carattere filosofico con il loro intreccio meraviglioso rappresentano il fondamento di ogni testo occidentale, e non solo, che voglia trattare il mito di una qualsiasi civiltà perduta nel mondo antico. I personaggi, che si muovono negli orditi delle due opere, hanno dato prova di riuscire ad abbattere l’evanescente barriera tra realtà e fantasia, ma è nulla se comparato al bocciolo, di incredibile bellezza e di straordinaria seduzione, rappresentato dall’interpretazione letterale ed anagogica di un mito riportato; peraltro riconosciuto senza alcuna difficoltà da chiunque, anche da chi non si è mai accostato al mondo, che solitamente viene definito classico.

Tutto prende forma nella mente dell’oramai vecchio e stanco Platone, il discepolo del sapiente Socrate, allorché stava dando una forma organica alla sua dottrina filosofica e sociopolitica, che interpretava il mondo, la natura e la società, mettendo mano a una delle ultime opere della sua più che mai feconda attività letteraria e filosofica.

Il Dialogo, passato alla storia con il nome Crizia, è legato idealmente ai precedenti La Repubblica e il Timeo, per quanto trovino una loro realizzazione in un tempo inconsueto, che non è quello del mito, ma ci si avvicina molto.

Nel Timeo e nel più tardo Crizia, strutturato come una continuazione del precedente Timeo con la presenza degli stessi personaggi, Platone ci rende spettatori di una conversazione tra eminenti personalità della cultura e della politica di allora: Socrate, Timeo, Crizia ed Ermocrate.

Crizia, zio materno dello stesso Platone, s’inserisce nel dialogo, riannodando la leggenda di una terra perduta. Racconterà di due grandi città, capitali di grandi imperi, che entrarono in conflitto tra loro: Atene e Atlantide, la città che a causa di cataclismi s’inabissò nelle profondità, sparendo per sempre dalla storia.  Atlantide o, meglio, l’isola di Atlantide “era a quel tempo più grande della Libia e dell’Asia, mentre adesso, sommersa da terremoti, è una melma insormontabile…che impedisce il passo a coloro che navigano sin qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre”, severa ma giusta punizione degli dei dell’Olimpo per la cupidigia e la bramosia dimostrate dai suoi abitanti.

Senza voler entrare nella esegesi del mito platonico, tuttavia nella pletora delle interpretazioni o delle più semplici descrizioni, molte delle quali accavallate nella ridda delle ipotesi più diverse e fantasiose, talune di queste hanno voluto ridisegnare gli eventi, attraverso una narrazione zigzagante, indicata come il Pensiero della Fine o, in altri casi, Pedagogia delle Catastrofi, che si snodano lungo momenti utili a produrre il cambiamento voluto. In presenza di un mondo violento, incapace di generare un qualsiasi processo di stabilizzazione, il primo passo volto alla ricostruzione della società consiste nell’identificare la Comunità responsabile di quella situazione. In seguito alla sua eliminazione con tanto di catastrofe naturale – catarsi inevitabile -, si riconquistava l’equilibrio tra il bene e il male, con una successiva ritualizzazione dell’intero processo.

Si è potuto scorrere questo processo narrativo in molte delle cosiddette civiltà scomparse nelle latitudini e longitudini più diverse, come, ad esempio, la nota vicenda di Rapa Nui, altrimenti conosciuta come l’Isola di Pasqua, l’isolotto nell’oceano Pacifico.

In piccolo, molto in piccolo, anche la storia della Serenissima cela una sua più modesta Atlantide con le relative dinamiche eziologiche, sprofondata nelle acque della laguna veneta. La vicenda ha dato vita nel corso del tempo a numerosi voli pindarici della fantasia, come se a Venezia e nella sua Laguna non mancassero già opere d’arte dalla straordinaria bellezza o una natura da mozzare il fiato. Comunque sia, moderni affabulatori amanti del mistero vi hanno costruito sopra di tutto e di più. Non è la prima volta e non sarà certamente l’ultima.

Ancora oggi, molti turisti s’aggirano tra le calli di Venezia agognando di raggiungere la chiesa di San Barnaba nel sestiere di Dorsoduro. L’edificio religioso, oggi spazio espositivo dedicato alle macchine leonardesche, è un continuo via vai di persone con il desiderio non tanto velato di scendere nelle viscere della chiesa, dove sono più che mai convinti di trovare delle reliquie dell’Ordine medioevale dei Templari; e tutto ciò per un celebre episodio cinematografico, nel quale l’affascinante professore Indiana Jones era alle prese con l’ennesimo mistero. Una scena davvero intrigante, senza dubbio. Purtroppo, si deve apporre anche un ma grande quanto una montagna. Certo, l’Ordine Templare era di casa a Venezia, come poteva non esserlo d’altra parte, ma la città lagunare non ha mai posseduto un reticolo fognario, come quello realizzato nella pellicola cinematografica. La città ha preso corpo sopra delle fondamenta, costituite da una rete fittissima di enormi pali, per cui buona parte dell’ambientazione cinematografica delle scene compiute a Venezia era frutto di una sapiente mano di un art director di Hollywood, la fabbrica dei sogni del cinema.

Dopo l’infuriare di una tempesta, forse una buriana più forte delle altre, l’alba di un giorno imprecisato del XII secolo il panorama di un tratto della laguna veneta avrebbe fatto strabuzzare gli occhi abituati a quegli scorci. Il cielo era ancora plumbeo, tutto era silenzioso e immobile, come doveva essere la laguna. Stormi di uccelli grigi e bianchi volavano incessantemente sopra spazi di acqua di mare, che fino a qualche ora prima davano spazio al centro lagunare di Methamauco, capitale del ducato veneziano dal 742 all’811, svanita dalla storia, inghiottita nelle profondità delle acque nella bruma lagunare.

La narrativa della scomparsa della città lagunare si è avvalsa di molti contributi: mezze verità, allusioni, spinte ideologiche e fenomeni naturali, quali la subsidenza e l’eustatismo, accompagnati dalla possibile azione sismica. Ma come è stato possibile che un centro di scambi ricco e fiorente sia scomparso senza lasciare tracce reali nella memoria storica? Che cosa causò la sparizione?

Il primo ricordo della località di Methamauco ci costringe a fare un bel salto fino alla lontana antichità, al celebre geografo Strabone, vissuto durante l’età augustea, che ha lasciato pagine a dir poco indispensabili per la comprensione topografica delle antiche terre venetiche. La sua testimonianza dell’agro patavino, dell’odierna Padova, si avvaleva anche di tre fonti fondamentali, purtroppo andate perse. La prima era quella di Polibio, lo storico famoso che aveva anche visitato le terre venetiche; la seconda di Artemidoro, geografo del I secolo a.C.; la terza, infine, Posidonio, lo scienziato e filosofo, pure lui conoscitore dal vero dei territori venetici. Dopo aver ricordato la bellezza della città e il benessere della popolazione, Strabone riporta che la città poteva essere raggiunta direttamente dal mare, risalendo “per 250 stadi (poco meno, poco più di 45 km.), a partire da un grande porto, un fiume che attraversa le paludi. Questo porto si chiama Medoaco, come il fiume stesso”.  (Geographia V 1, 7, 215).

La successiva, ma più tarda testimonianza è conservata nelle pagine di un’opera storica di un tale Diacono Giovanni, il cui profilo è incerto, anche se viene per lo più identificato nell’ambasciatore del doge Pietro II Orseolo (991-1008) presso l’imperatore Ottone III. La sua cronaca, che apre la storiografia veneziana, contiene numerosi elementi leggendari o appartenenti a epoche diverse da quelle raccontate, ma, a sua volta, include tracce e indizi, capaci di orientare il lettore verso la comprensione delle origini del ducato veneziano. In essa, La località metamaucense viene citata nell’elenco delle “insulae” fondanti il ducato veneziano, che si estendeva da Grado a Cavarzere. Il testo, scritto in latino, recita: “Nona insula Metamaucus dicitur, que non indiget aliqua urbium munitione, sed pulchro litore pene ex omni parte congitur, ubi auctoritate apostolica episcopalem sedem populi habere consecuti sunt”. (Giovanni Diacono, I, 6, 55-56).

In effetti, le poche righe dicono ben poco, ma è possibile tirarne fuori qualcosa lo stesso. L’antica città era dotata di una struttura muraria fortificata ed era cinta quasi da ogni parte da un lido; e, come ogni centro urbano che si rispettava, la popolazione ebbe, per disposizione dell’autorità apostolica, la sede episcopale, peraltro testimoniata dal “Chronicon Gradense”, testo risalente al XII secolo, che cita Torcello, Malamocco, Olivolo, Jesolo, Cittanova Eracliana, Carole (Chronicon Gradense Origo, 43) quali sedi vescovili.

Tra il 742 e il 743, con la scelta del nuovo duca Deusdedit, figlio del duca Orso, appartenente all’aristocrazia tribunizia bizantina, le oligarchie locali delle comunità lagunari decisero di trasferire la sede ducale da Cittanova a Methamauco, tentando così di porre fine alle lotte fratricide tra le famiglie nobili di Jesolo e Eraclea: “Eisdem etiam diebus Venetici, magistrorum militum prelibate prefecture dignitatem abominantes, ut quondam, ducem, videlicet Deusdedem, sepedicti Ursoni ypati filium, in Metamaucense insula sibi crearunt” (Giovanni Diacono, I,  ). In ogni modo, il tentativo di instaurare un assetto politico stabile non diede i frutti sperati e si aprì la storia di una successione quasi ininterrotta di congiure e complotti. Intorno al 755, il duca Deudedit rimase vittima di una congiura, compiuta da un tale Galla e accecato, come ricorda sempre Giovanni Diacono: “a quodam infideli, Galla nomine, eius avulsi sunt oculi” (…). Un anno dopo, toccò a Galba ad essere accecato e ucciso, in seguito ad una rivolta popolare. Il suo posto fu preso da Domenico Monegario, esponente dell’aristocrazia di Malamocco, che, però, finì per essere deposto e accecato nel 764. Fu la volta di Maurizio Galbaio, che, accolse la morte per cause naturali sul proprio letto nel 787, dopo aver associato al governo il figlio Giovanni, il quale fece la stessa cosa con il figlio Maurizio.

Giovanni e Maurizio Galbaio impressero la loro azione politica verso un netto riavvicinamento all’impero di Costantinopoli, ma fu la nuova situazione politica createsi in Italia nel IX secolo, allorché Carlo Magno, liquidati i Longobardi, giocoforza s’inserì nei rapporti di forza presenti nella penisola italiana e, soprattutto, con l’impero bizantino, il che poneva le terre lagunari tra l’incudine e il martello. A sua volta, le Comunità venetiche presero a dividersi animosamente in due fazioni, l’una filoccidentale o filo franca e l’altra lealista verso Costantinopoli.

Il patriarca di Grado, Fortunato, succeduto a Giovanni filo franco, assassinato dalle milizie veneziane facendolo precipitare da una torre, aveva più di una ragione per essere impaurito e di fare la stessa fine del suo predecessore; quindi, pensò bene di trovare un valido aiuto nell’Impero franco e, così, cum grano salis, nell’803, si diede alla fuga, raggiungendo la corte di Carlo Magno, dal quale ottenne le necessarie assicurazioni, oltre ai privilegi per la sua stessa chiesa. Le inevitabili tensioni della politica interna veneziana avevano avuto delle ricadute verso posizioni estreme, radicali, senza che nessuno alzasse il ditino per dare lezioni sul “senso di responsabilità”.  L’essenza carsica delle due distinte fazioni non poteva permanere in quell’equilibrio instabile ed incerto e sarebbe stato sufficiente un nonnulla, una piccola variazione delle condizioni iniziali per alterarlo. Cosa che avvenne puntualmente con la partenza precipitosa del patriarca Fortunato, che generò una reazione a catena, provocando la fuga dei maggiorenti della fazione filoccidentale dalle insicure terre venetiche, trovando un sicuro rifugio a Treviso. Qui, in aperta opposizione al duca in carica Giovanni Galbaio, gli insorti elessero Obelario, tribuno metamaucense, il nuovo timoniere del ducato lagunare.

Nell’804, fu la volta di Galbaio, del figlio e del vescovo Cristoforo a dover abbandonare la laguna e prendere la via dell’esilio.

L’efficacia dell’azione politica franca nelle terre venetiche fu sostanzialmente convalidata con le dinamiche relazionali portate avanti con attenzione. Carlo ammise alla corte i nuovi maggiorenti del ducato veneziano, avvalorando così la loro autorità. L’episodio venne raccolto dagli Annali Franchi: “Venerunt Villeri et Beatus Duces Venetiae, nec non et Paulus Dux Jaderae, atque Donatus ejusdem civitatis Episcopus, Legati Dalmatiarum, ad praesentiam Imperatoris cum magnis donis. Et facta est ibi ordinatio ab Imperatore de ducibus et populis tam Venetiae, quam Dalmatiae” (Annales regni francorum, 120-121).

Le milizie veneziane assediarono e distrussero la città di Eraclea, capitale della fazione filobizantina, e, poco più tardi, Obelario inviò una flotta in Dalmazia per dare man forte ai Franchi, tesi a sottrarla all’Impero bizantino.

Forse, sono da riferire proprio questi anni gli antichi affreschi, rinvenuti un paio di anni fa, che provocarono un clamore mediatico di non poco conto. Le pitture, che decoravano l’abside centrale  della Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello, tra il IX e il X secolo, prima della successiva decorazione bizantina a mosaico, raffigurano la Vergine, un’ancella e san Martino.

Sulla scorta della celebre frase tratta dal film “The Butterfly Effect”, secondo la quale “il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”, trova una sua conferma con quanto accadde nel febbraio dell’806.  In quei giorni, a Thionville, Carlo Magno predispose la suddivisione dell’Impero in tre parti, da assegnare ai figli.  Al figlio Pipino sarebbe toccata la Baviera, l’Alemannia, parte della Carinzia e l’Italia, compresa la Venezia, l’Istria e la Dalmazia, dimenticando i diritti di Bisanzio su quest’ultimi territori e, operando un ribaltamento delle posizioni, ponendoli sotto la sfera influenza franca. Mesi dopo, sul finire della stagione buona per la navigazione, la flotta bizantina comparve in laguna, senza trovare alcuna resistenza.

Il patriarca Fortunato, vedendo la mal parata, prese la via degli amici Franchi, mentre Obelario e suo fratello rimasero al loro posto e aspettarono il corso degli eventi, pensando che tutto si svolgesse nel migliore dei modi. Intanto, Niceforo non era rimasto con le mani in mano, come la corte franca, che pose mano alla prima stesura della tregua tra i due Imperi.

Niceta, l’ammiraglio bizantino, aveva preso la via del mare con il trattato da ratificare, quando comparve all’improvviso in laguna. Beato, il vescovo Cristoforo, il tribuno Felice e altri membri delle famiglie più in vista del patriziato veneziano furono portati via con sé come ostaggi, mentre Obelario fu lasciato al suo posto, forse per il semplice motivo che il greco non poteva impegnarsi fino in fondo contro le forze veneziane. Così si pensò bene di comperarlo, lusingandolo con delle onorificenze e delle qualifiche nobiliari. Era pacifico che la partita fosse ancora aperta. Si aspettava solo il momento giusto per regolare i conti, una volta per sempre.

Ratificato il trattato dall’imperatore di Costantinopoli, la flotta bizantina attraccò nuovamente in laguna. La guidava l’ammiraglio Paolo di Cefalonia, incaricato anche di perfezionare gli accordi con il re d’Italia Pipino, ma qualcosa dovette andare storto. L’ammiraglio bizantino salpò all’improvviso e fece ritorno a Bisanzio. In un primo momento i Franchi rimasero alla finestra, per capire come evolvessero le cose, soprattutto perché in laguna aveva ripreso forza la fazione filo franca, poi, visti i tentennamenti venetici, pensarono di risolvere la questione con le armi. Pertanto, Pipino, “spinto dalla perfidia dei duchi dei venetici”, ordinò alle sue milizie di assalire il ducato, attaccandolo con le sue milizie dal confine meridionale, cercando di raggiungere direttamente Malamocco e rompere la coesione delle Comunità lagunari, magari intrappolando l’eventuale resistenza in sacche isolate e chiudendo i corridoi di spostamento chiave.

Le fonti franche a questo proposito sono piuttosto chiare. Dopo un attacco simultaneo da terra e mare, i maggiori centri furono conquistati e solo l’arrivo della flotta bizantina evitò il disastro più totale per i venetici. Con le uova ormai rotte nel paniere, i franchi si trovarono nella necessità di ritirarsi senza subire gravi danni.

Ben diversa la versione veneziana dell’avvenimento. Giovanni Diacono a questo proposito riferisce della bramosia del franco e del suo farsi avanti con fatica tra le barene e le velme. Alla fine, gli invasori riuscirono a raggiungere “…ripas Methamaucensis portus situatum…” (Dandolo, 132), ma l’offensiva non diede i frutti sperati, poiché i Venetici avevano spostato la sede ducale a Rivoalto e, allo stesso tempo, dato una sonora lezione ai franchi. La flotta dei Veneti, con un abile stratagemma aveva condotto i vascelli franchi a incagliarsi nei bassifondi della laguna e gli equipaggi massacrati, tanto che il canale venne ricordato con il l’idronimo Canal Orfano, per ricordare il sangue di tanti padri di famiglia. A questo episodio è legata una curiosa notizia, che sa tanto di leggenda metropolitana. Una matrona di Malamocco suggerì agli invasori come raggiungere Rivoalto e conquistarla. Era sufficiente chiamare un centinaio di persone del luogo, che sapevano dove mettere le mani e conoscevano a menadito i posti, per stendere un lungo ponte di zatteroni e far passare l’esercito, ma il tutto si risolse in un disastro. Al passaggio delle milizie, i pontoni si aprirono, facendole cadere in acqua e annegare.

Un racconto davvero intrigante, che, magari, meriterebbe degli approfondimenti!    

Carlo Magno, dopo la morte del figlio Pipino, condusse di persona le trattative per la fine delle ostilità. I territori veneti e dalmati vennero restituiti a Bisanzio, mentre l’imperatore Michele I, nel frattempo succeduto a Niceforo, riconobbe il titolo imperiale di Carlo Magno, venendo con ciò a specificare l’esistenza di due aree ben definite, a capo delle quali vi erano due imperatori in un rapporto di pariteticità.

Il nobile Arsafio, inviato dalla corte levantina per discutere sugli ultimi punti del trattato, arrivò con la flotta dentro la laguna, senza trovare alcuna resistenza. Messa via, almeno per il momento, l’indebita ingerenza dei Franchi, tutti i nodi vennero al pettine. Obelario fece un salto nel vuoto, tentando di trovare un sostegno nei suoi vecchi amici continentali. La posta in gioco era troppo alta e nessuno se la sentì di rimestare nuovamente le carte. L’uomo fu riconsegnato ai Bizantini, che lo condussero in catene a Bisanzio. Il fratello Beato se la cavò con il semplice esilio a Zara. Dopo di che, in laguna, fu eletto il lealista Agnello Particiaco, dell’aristocrazia di Eraclea, città filobizantina. Le cose sembrarono andare per il verso giusto, fino a quando, una ventina di anni dopo circa, il buon Obelario fece il suo ritorno in laguna, sbarcando in piena notte a Vigilia o Abbondia, una città del contado lagunare, scomparsa anch’essa senza lasciare traccia del suo passato, non lontana da Malamocco.

Il malcontento serpeggiante nei confronti del duca Giovanni Particaco gli si raccolse subito attorno. Forse, non fu ininfluente una spintarella del nuovo re d’Italia Lotario, subentrato a Pipino. Fatto sta, che le milizie di Vigilia e di Malamocco si schierarono con Obelario. Giovanni reagì, distruggendo le due città ammutinate e quando ebbe in mano il capo dei rivoltosi, lo fece decapitare. La sua testa venne piantata su un palo, posto a Mestre sul confine tra il ducato e l’Impero, quale monito per il futuro. Tuttavia, per quanto indebolita, la fazione filo continentale non scomparve, ma si fece sentire di tanto in tanto, appoggiando sempre di più le spinte autonomistiche del ducato nei confronti dell’Impero bizantino.

Da quel momento l’antico borgo decadde, fino a sparire del tutto. Un silenzio che appare piuttosto sospetto, soprattutto perché l’idronimo della città poteva suonare veramente male alle orecchie dei veneziani, impegnati – in particolare tra il XII e il XIII secolo – a contrastare le mire espansionistiche della vicina Padova, dato che i nemici erano più che mai rilevanti nelle stesse origini del ducato.

In ogni modo, il silenzio sulla sua reale collocazione appare singolare, se non sospetto. Quindi, dove si trovava la città? Non lontano dalla località degli Alberoni, propaggine meridionale del litorale del Lido, vi è un’isola fortificata, conosciuta sotto il nome di Ottagono abbandonato, che avrebbe dovuto difendere Venezia dalle navi nemiche, eventualmente entrate in laguna dal canale di Malamocco.

Sopralluoghi e saggi hanno portato all’identificazione tutt’intorno dell’isola di una lunga serie di evidenze archeologiche sostanziali, che hanno portato ad ipotizzare nel sito il porto alla foce del fiume Brenta, come citato dallo scrittore Strabone. Inoltre, sulla scorta di successivi rinvenimenti, avvenuti a breve distanza, si è giunti a configurare il sito metamaucense una entità urbana e portuale estesa, dislocata nei lidi e isolotti contornanti una determinata area, dove la sede ducale, la chiesa e le strutture portuali più grandi dovevano aver trovato edificazione sulle terre più vaste. Un esempio della complementarità dei singoli luoghi potrebbe essere rappresentato ai siti adiacenti all’isola di San Servolo o, ancor più, da quello denominato Fusina 1, situato nel Canale dei Petroli, che conduce dalla bocca di porto di Malamocco al porto di Marghera. Benché la sua lettura sia resa complicata dallo stato pessimo di conservazione, gli studiosi sono riusciti a rinvenire, sotto tre – quattro metri il livello medio lagunare, allineamenti di pietra o di pali di legno, risalenti all’età romana, che dovevano appartenere a pontili d’imbarco e sbarco, vere e proprie strutture logistiche di un sistema più esteso, come quelle similari rinvenute nelle acque della vicinissima isola di Poveglia.

Elaborazione planimetrica Gruppo Archeologico Veneziano su rinvenimenti di E. Canal

Dall’esame dei materiali della vita quotidiana, ad esempio la ceramica, si è potuto stabilire, che, in alcuni casi, le strutture non superarono l’età antica, forse per lo stato d’abbandono o per le cambiate connotazioni geografiche. Perciò, se una parte dell’antica Metamauco potrebbe riferirsi a queste aree prettamente portuali, rimane ancora da capire dove potrebbe trovarsi il grosso della località, ovvero il sito interessato dalla presenza del palazzo ducale, della chiesa e delle residenze delle famiglie più abbienti; e, cosa non secondaria, comprendere che cosa gli sia accaduta, considerato che è pur sempre vera una grande verità, ben espressa dal titolo di un libretto di un grande storico francese, Henri-Irénée Marrou, ossia “La fin du monde n’est pas pour demain”.

A questo proposito, grazie ai molti rinvenimenti di superficie e ai più rari saggi archeologici, si comincia a delineare sempre più l’idea che il sito della Malamocco antica sia da identificare a stretto contatto con l’area definita dall’Ottagono abbandonato, l’isolotto a poco più di novecento metri dalla riva del Lido. Le chiare attestazioni di edifici, alcuni dei quali di notevole estensione, e di altre strutture fanno presagire prossime conferme a riguardo.

Per quanto riguarda il come mai..alcune testimonianze si dimostrano piuttosto interessanti. Su uno di questi, risalente al 1108, si legge che il doge Ordelafio Falier concedeva al monastero di San Cipriano di Malamocco di trasferirsi a Murano: “quia multis perturbationibus atque maris incommodis monasterii vestri habitaculum cotidianis terrarum defectibus imminui videmus” (A.S.C.V., S. Cipriano di Murano in Mensa Patriarcale B. 90). Una successiva testimonianza dello stesso anno, il patriarca di Grado Giovanni Gradenigo avvalorava la concessione del doge, motivandola sempre con le molte perturbazioni e i danni provocati dal mare. Risale al febbraio 1109, invece, il documento che riporta lo spostamento del cenobio benedettino delle suore dell’abbazia dei Santissimi Basso e Leone da Malamocco al convento di San Servolo, lasciato libero dai monaci benedettini, che avevano preso casa presso il monastero di Sant’Ilario. L’abate Pietro offre questa soluzione alla badessa Vita Marango, sempre per la stessa ragione: “propter multas perturbationes et maris pericula, quibus habitaculum vestri monasterii quotidianis defectibus imminuere videmus”. (F. Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, Venetiis, pasquali 1749, to. VII, pp. 107-108).

Dalla lettura delle fonti pervenute si può fare una prima conclusione. Le strutture romane, risalenti alla tarda Repubblica e imperiale, erano ormai degradate e solo poche di esse furono adoperate in età altomedioevale.

Infine, nel 1107 si giunse alla fondazione della Malamocco, che corrisponde più o meno all’attuale cittadina, amministrata assieme all’isola di Poveglia da un Podestà.

Per ultimo, lo stesso doge Falier, che si era preoccupato della situazione del monaster di San Cipriano, avvallò di suo pugno, con diploma datato 10 aprile 1110 esottoscritto da 19 dignitari, la decisione del vescovo Enrico Grancarolo di portare la sede a Chioggia, divenendo di fatto il primo vescovo di Chioggia, pur conservando fino al 1119 il titolo di vescovo di Malamocco. Assieme alla sede vescovile e all’intero Capitolo, in quell’occasione, vennero portate a Chioggia anche le reliquie dei santi patroni Felice e Fortunato, due fratelli decapitati, durante la persecuzione ai cristiani, compiuta dall’imperatore Diocleziano, nei pressi di Aquileia nell’anno 305. Le reliquie dei martiri, che sono ancora custodite nella cattedrale chioggiotta dedicata alla Vergine, sono condivise con la loro città natale, Vicenza – intrigante il cenobio di Ammiana intitolato ai due martiri, dato l’investimento torcellano e non metamaucense -.

La fine di Malamocco non fu causata da un evento catastrofico improvviso, come raccontato dalla leggenda, ma dal continuo logorio delle acque, che erose sempre più importanti porzioni del territorio. Tuttavia, la popolazione e le istituzioni più importanti rimaste in città poterono abbandonarla in tutta sicurezza. In seguito, forse, una perturbazione più incisiva rispetto a quelle del passato, concluse definitivamente la vita della città, sommergendola per sempre.

 Alcuni la vollero vedere in taluni luoghi chiamati con il termine “tegnùe”, che in veneto vuole dire trattenute, volendo con ciò ricordare il continuo impigliare dei tramagli o i grossi squarci sulle maglie delle reti. In realtà, le Tegnùe non erano i resti romanticamente identificati dai pescatori, ma delle conformazioni simili alle barriere coralline, presenti lungo l’arco adriatico ad una profondità variabile tra i 15 e i 40 metri, in particolare davanti a Chioggia, a Pellestrina, al Lido e al Cavallino Treporti. Tremila anni fa, all’incirca, le alghe rosse calcaree, della famiglia delle Corallinaceae, hanno dato vita a delle barriere molto simili a quelle tropicali.

Dunque, le Tegnùe non sono i resti della città ma un fantastico e insperato regno regalato dalla natura, gioia di molti subacquei e della fauna che qui cresce tranquilla.

Nonostante ciò, il ricordo della città scomparsa appare attribuire un senso alla storia di quella attuale, narrandone le tragedie del passato, cioè che per quanto ci si possa dar da fare è impossibile che la verità rimanga nascosta per sempre. Prima o poi se ne esce fuori.

ASPETTANDO METAMAUCO, IL FASCINO E IL MISTERO DI UNA CITTA’ SCOMPARSA

Le fotografie di oggi danno veramente l’idea di voler precorrere il prossimo articolo, che troverà pubblicazione nei prossimi giorni. L’argomento affrontato sarà l’antica città di Metamauco, sede del ducato veneziano dal 742 all’811, nonché sede del vescovo, che s’inabissò nelle profondità del mare, sparendo per sempre. Tuttavia, alcune voci riuscirono a riemergere e parlarono di cataclismi naturali che l’uomo nulla può, quale il terremoto, il maremoto o, ancora, ambedue le catastrofi. Affronteremo tutto ciò nel prossimo articolo, nel frattempo un cielo di grigi presagi, visto dalla meravigliosa isola di Pellestrina.

Today’s photographs really give the idea of ​​wanting to anticipate the next article, which will be published in the next few days. The topic addressed will be the ancient city of Metamauco, seat of the Venetian duchy from 742 to 811, as well as the seat of the bishop, which sank into the depths of the sea, disappearing forever. However, some voices managed to re-emerge and spoke of natural cataclysms that man can do nothing, such as an earthquake, a tidal wave or both. We will address all this in the next article, meanwhile a sky of gray omens, seen from the wonderful island of Pellestrina.

Oderzo, il filo della storia

C’era una volta un luogo, dove era possibile ascoltare e danzare sulle note di melodiose armonie dello svolgersi della storia, con i suoi altalenanti momenti di cambiamento e di transizione, ottimamente simboleggiati dagli antichi con la divinità di Giano Bifronte, patrocinatore degli inizi e dei passaggi, nelle attività umane e in quelle naturali.

Nei vicoli e nelle piazze di questa località il fato si è divertito a scandire la vita di tutti i giorni dei suoi abitanti. Non a caso, hanno dedicato una porzione della Piazza Grande, la principale della cittadina, al fato e allo scorrere del tempo. Ci si perde nel quadrante della meridiana, dove una linea a forma di otto accompagna i raggi del sole alla definizione del tempo, legandoli al moto astronomico della terra e alla misteriosa equazione del tempo. L’analemma, così si chiama la curva geometrica a forma di otto, è appaiato tra lo svolgersi dei segni zodiacali, anch’essi nella pietra della Piazza, piccolo tributo per averli guidati nelle cose della natura per millenni.

I sapori, vecchi di secoli e secoli ancora, si ascoltano sul nastro magnetico della vita il concitato vociare delle contrattazioni per le innumerevoli primizie offerte dalle fertili terre, raccolte con tanto sudore da mani callose poche ore prima. In seguito ai messaggi della Luna e del Sole, echeggiavano lingue del nord, non sempre amiche o del tutto comprensibili, ma non mancavano parlate delle lontane terre del sud, che portavano con loro i racconti, che rievocavano duelli tra eroi, la distruzione di una nobile città; e tutto ciò per una donna, così bella e sensuale da sfidare in agone la stessa Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza. Un coacervo confusionario di lingue diverse. Una piccola torre di Babele. Poi, bene o male, si fece strada una nuova lingua, che si affermò con la forza dei suoi legionari, commercianti e funzionari pubblici. Era la lingua della nuova capitale del mondo occidentale conosciuto.

No! Per fortuna, il filo non è andato perso, non si è smarrito nella nebbia del nulla. C’è ancora, eccome se c’è. In questa cittadina del trevigiano i colori più intimi della sua essenza non sono andati sbiadendo nel corso dei secoli. Siamo ad Oderzo.

Basta esplorarla a piedi, da un posto all’altro, scoprendo i suoi angoli più nascosti o meno conosciuti, magarci concedendoci brevi deviazioni, seguendo il dedalo di case dal sapore medioevale e rinascimentale; oppure da quelle seicentesche con tanto di portici e cortili, molte delle quali adornate da affreschi sbiaditi, ma sempre affascinanti da vedere: o sostare davanti alle “piere” di qualche millennio di anni fa, oppure, più prosaicamente, in qualche locale caratteristico per fare un salto nel passato. Certo, in questo luogo la Luna non è più bella di quella che splende a Corinto, ma qui si vive il presente e si costruisce il futuro, guardando con attenzione e rispetto al passato, senza portarne le pesanti catene. Qui, tra le molte isole di verde, è possibile ambientarvi le parole dell’amata Anite: “Siediti qui, ignoto viaggiatore, sotto le belle verdeggianti foglie dell’alloro, e bevi la dolce acqua della fonte di stagione, perché il tuo corpo in affanno per le fatiche d’estate battuto dal vento di Zefiro riposi”. (A.P. 9. 313).

Oderzo ha navigato in balia delle onde della storia, tra tempeste terribili e possibili naufragi, ma è riuscita a mantenere la rotta fino al porto sicuro del suo essere baricentro della media pianura tra il/la Piave e il/la Livenza, l’area di confine di commistione reciproca tra le popolazioni dei veneti e dei Carni, genti celtiche originarie delle pianure tra il Danubio e il Reno.

Da lontano, il borgo si mostra modesto, discreto a suo modo nei confronti del viaggiatore o del più semplice visitatore. Si perde tra il verde dei campi, un prato all’italiana senza fine di vigneti ordinati, i lontani e abbozzati contorni delle dolomiti bellunesi e friulane e l’azzurro del vasto cielo.

I suoi primi ed incerti passi risalgono a molti secoli addietro, al mondo che è stato definito paleoveneto. Gli studiosi, setacciando con pazienza, tanta pazienza e altrettanta fortuna, il suo suolo, hanno messo insieme gli elementi di un passato, le cui origini traevano vita nel X secolo a.C., almeno per quanto riguarda l’insediamento urbano vero e proprio.

Le indagini archeologiche e geofisiche hanno ricostruito un quadro ambientale ben diverso da quello attuale. Il sito venne scelto sopra un dosso, a ridosso di due corsi fluviali. Il primo corrisponde al Navisego, che forma il Piavon; e il Monticano, che, più avanti, confluiva nel Livenza, per poi raggiungere il vicino mare Adriatico, dando ragione alle parole di Plinio il Giovane, contenute nella sua Naturalis Historia, quando descrive la Venetia (III, 117/130), allorché la individua nella Regio mediterranea, con l’unico collegamento con il mare attraverso un corso fluviale; o di Strabone (V, 7, 214) che la pone tra le polismatia, centri urbani contraddistinti dalla presenza di un corso fluviale che permetteva la navigazione fino al mare.

Il toponimo venetico e la radice ter in esso presente lasciano pochi dubbi sul suo significato. Il nomen omen manifesta il suo ruolo di “Piazza Mercato”, come la lontana Targeste, l’attuale Trieste. Il filo della storia intreccia nuovamente i suoi fili della trama con quelli dell’ordito dell’enorme palcoscenico rappresentato dal Mediterraneo per mettere in scena gli episodi della Guerra Civile di quel particolare avvenimento che sarà poi ricordato come la Guerra Sociale, che prese vita nel gennaio del 49 a.C. per terminare nel marzo del 45 a.C.. Cesare aveva terminato vittoriosamente la campagna gallica e gli apparve giunto il momento per regolare i vecchi conti con Pompeo e la fazione tradizionalista e conservatrice del Senato romano. Nel maggio del 49 a.C., nei pressi di Salona, poco a nord est di Spalato in Croazia, dei pontoni stavano trasportando legionari e reparti ausiliari di fede cesariana. A bordo di una di queste singolari imbarcazioni, in realtà poco più che zatteroni, si faceva sentire l’energico tribuno Gaio Vulteio Capitone, nativo di Oderzo, come opitergini erano i legionari della sua coorte. Questi, quando si ritrovarono circondati dai pompeiani, preferirono intingere nel proprio corpo le spade, piuttosto che cadere nelle mani dei nemici. L’episodio, ricordato da alcune fonti letterarie ((Scholia ad Lucanum, IV, 462; Livio, ep. 110; Floro, II, 13,33) non è ricordato da Cesare nel suo celebre resoconto della Guerra Civile. Tale omissione, piuttosto sospetta, ha fatto sobbalzare più d’uno studioso sulla sua veridicità, insomma secondo qualcuno si tratterebbe di un’invenzione bella e buona. Di certo, Cesare esentò Oderzo per venti anni dal servizio militare e ampliò anche il suo di ben 300 centurie. Inoltre, a ricordare la partigianeria dei Veneti per la fazione cesariana, sono state ritrovate le ghiande missili ad Ascoli Piceno, con scritte in venetico e latino, che non lasciano dubbi a questo riguardo. A dire il vero, la tradizione si sarebbe fatta carico di ricordare un altro manipolo, che avrebbe lasciato memoria di sé per meriti decisamente non edificanti. I legionari romani di stanza a Gerusalemme che divennero gli esecutori materiali della morte per crocifissione di Gesù provenivano da Oderzo, come lo stesso Longino, il leggendario centurione che trafisse il costato del Messia, con la Lancia del Destino, custodita oggi nella Schatzkammer dell’Hofburg di Vienna. Storie da non andare fieri, senza dubbio. Per fortuna, si tratta di fantasie buone solo per abili romanzieri, niente più.

A proposito di immagini fascinose, a pochi chilometri dal centro storico cittadino, in località Colfrancui, una semplice rete metallica cinge una modesta collina artificiale. È conosciuta con il nome di Mutera. Si è ipotizzato che fosse un osservatorio astronomico, di certo alla sua base è stata rinvenuta una sepoltura di un cavallo. In prossimità è stata rilevata una fornace, presumibilmente di epoca romana.

Già, in epoca romana. Oderzo era un municipium retto da Quattuorviri ed era ascritto alla tribù Papiria. Nel corso degli anni della tarda repubblica, la città fu interessata da un restyling urbanistico di tutto rispetto. Benché la sostanziale continuità abitativa del centro urbano, tuttavia le indagini archeologiche sono riuscite a rilevare tracce murarie, edifici commerciali, terme, molo fluviale e le porte del foro, lastricato con la trachite dei Colli Euganei, munificenza della matrona romana Volceia Marcellina, il cui ricordo è sopravvissuto attraverso una lapide rinvenuta nel foro.

Il filo della memoria ci accompagna, inoltre, nella diffusione del Cristianesimo in ambito venetico, che ad Oderzo trovò terreno fecondo, tanto da divenire un centro vescovile, con addirittura tre vescovi canonizzati: Tiziano, Magno e Floriano, tutte e tre iconografici nella tradizione viva della fondazione di quella che sarà Venezia.

L’insieme dei fili della trama non può non tenere conto delle invasioni barbariche, iniziate con i Marcomanni (167 d.C.), proseguite con i Visigoti nel 403 d.C. e il saccheggio di Attila nel 452, per quanto non vi siano prove certe di questa devastazione. Ma fu sufficiente per creare di sana pianta una specie di leggenda “metropolitana”, dato che si è estesa alle principali città della Venetia, secondo la quale i maggiorenti del la località, saputo dell’arrivo del capo barbaro, avrebbero nascoste tutte le ricchezze del contado dentro un pozzo. Tesoro, ovviamente, mai recuperato e andato perso. Per fortuna non sempre il diavolo, in questo caso Attila, non è così brutto come lo si dipinge, la città poté sopravvivere e mettersi in gioco nuovamente con quanto il fato l’aveva predestinata. Nel 616 d.C. o giù per lì, all’interno delle sue mura si consumò un fatto di sangue, che andava contro il diritto delle genti, allorché i duchi longobardi Caccone e Tasone furono trucidati in un’imboscata dal patrizio bizantino Gregorio. Anni dopo, nel 667, il longobardo Grimoaldo vendicò l’accaduto distruggendo la città e dividendone l’agro tra Treviso, Ceneda e Cividale. Nel frattempo, il centro aveva conosciuto il fenomeno dello spopolamento, divenendo una semplice borgata con il vago sentore di avamposto militare. Parte della sua popolazione aveva trovato rifugio a Civitas Nova, la matrice di Venezia, ma non si perse nelle pieghe della storia. Rinacque nuovamente attraverso le tappe dell’incastellamento rurale, ritornando ad essere un centro strategico per il contado. Dovette sostenere più volte assedi e battaglie nel corso delle guerre tra i nuovi protagonisti del Medioevo. Tra questi, il maggior peso lo ebbero i vescovi di Belluno, la stirpe dei da Camino, Ezzelino da Romano, infine, il Comune di Treviso, artefice della nuova configurazione della cittadella, cinta con una più recente cerchia muraria.

La cittadina ai primi del Novecento dovette sopportare l’abbattimento o il restauro, così così, di molti edifici storici. Inoltre, nel corso del Primo conflitto mondiale si trovò in prima linea, soprattutto dopo la ritirata di Caporetto del 1917, con tutto ciò che ne consegue, distruzione e perdite irrimediabili. Anni dopo, assistette alle violenze del Secondo conflitto. Dalla Piazza Grande, vero e proprio salotto all’aria aperta, dove ci si incontra, si chiacchera e si allieta il palato con un calice di prosecco, un buon caffè e chissà altro ancora, è possibile accedere ai monumenti più vicini. Lasciato alle spalle il ristorante Gellius, un locale tra tavole e sorprese archeologiche vere e proprie di un’abitazione patrizia romana,

si può muovere alla direzione del Torresin, la ricostruzione del Novecento dell’antica porta medioevale, l’accesso principale dalla strada Callalta, proveniente da Treviso.

Durante la dominazione veneziana, intorno al 1339, l’edificio e la vicina casa torre del XIII secolo vennero destinate a residenza del podestà. Prima di varcare il Torresin e gettarci nelle braccia accoglienti della cittadina, ci aspetta il duomo intitolato a San Giovanni Battista, le cui fondazioni troverebbero una continuità con un tempio pagano, dedicato nientepopodimeno al dio della guerra, l’iracondo Marte. La prima comunità cristiana opitergina si trovò a radunarsi nel tempio pagano, dopo che il primo vescovo di Padova, San Prosdocimo, inviato da San Pietro in persona per evangelizzare le terre venete, scacciò non solo il povero Marte dal suo tempio, ma ne devastò per bene le sue suppellettili presenti, in particolare l’idolo di bronzo che lo raffigurava.

Le perle al suo interno sono numerose, si ricordano, fra le molte, le opere di Palma il Giovane, Domenico Tintoretto, oppure di Pomponio Amalteo.

L’attuale edificio, pietra angolare tra la Piazza Grande e la Piazza Giosuè Carducci, risente a colpo d’occhio degli interventi, che, nel corso delle epoche, dovette subire, modificando molti degli aspetti romanici originari. Il restauro più importante avvenne negli anni Venti del Novecento su indicazione del monsignore Domenico Visintin, che pretese di riportare l’aspetto esteriore della chiesa all’XI secolo, eliminando i sedimenti dei secoli successivi. Il tempio oggi si presenta con un tetto a capanna semplice, mentre la facciata è decorata con un piccolo rosone centrale e dei pinnacoli. Lo spazio dell’interno si distribuisce in una navata, che si conclude armoniosamente in tre absidi. Il campanile, tirato su nel Cinquecento, poggia le sue basi su una delle torri della scomparsa fortificazione muraria, mentre tutt’intorno è un florilegio di palazzi nobiliari di squisite fattezze, per lo più risalenti al Cinquecento e Seicento.

L’area archeologica opitergina si estende un po’ ovunque nel tessuto urbano. Di fronte al Duomo, si ha l’area delle antiche carceri, dove si è potuto appurare una sostanziale continuità, che si è praticamente chiusa con l’ultima stratificazione superiore, quella attuale, costituita da un prosaico ristorante, chiamata Gellius, dal ritrovamento di una lapide funeraria dedicata ad un defunto di nome Gellius rivenuta nella sezione romana. La quale è piuttosto rappresentata dalle mura di età augustea con uno spessore di tutto rispetto di circa 1,90 centimetri e una probabile altezza originaria di circa sei metri. Sulle mura augustee furono erette le fondazioni di un torrione fortificato dell’VIII secolo ca., quindi la casa torre del XIII secolo, che, oltre ad ospitare le segrete, divenne la sede del governo veneziano in città. Secoli avanti, l’edificio ormai fatiscente, venne abbattuto per far posto nel 1797 ad una torre carceraria. Gli scavi condotti nell’area della via Mazzini hanno riportato alla luce lacerti del foro, il cuore della città romana, che risultava porticata, intorno alla quale si ergevano la maggior parte degli edifici pubblici e il probabile tempio dedicato alla triade capitolina, rappresentata da Giove, Giunone e Minerva; senza contare i resti di una domus e di altri edifici abitativi aristocratiche. Ancora, si possono visitare altre aree archeologiche, tutte a cielo aperto, come quella posta in Via dei Mosaici, ove si osservano i resti di altre abitazioni. Infine, l’enorme quantità di materiali rinvenuti è oggi custodita nel Museo Civico Archeologico, dedicato allo studioso Eno Bellis, e nella Pinacoteca intitolata ad Alberto Martini.

Caro Viaggiatore, visitando il suo centro storico, la cittadina ti farà vivere l’emozione di sottrarti dal presente e di lasciarti andare via, con una certezza in più. Quella di aver scoperto una nuova amicizia, che saprà accoglierti ogni qual volta tu lo desiderai.

PORTOBUFFOLE’. IL BORGO DI GAIA

Portobuffolé, un piccolo borgo veneto di poco meno di mille anime, si presenta al visitatore raccolto in sé, nelle sue vestigia secolari, come se fosse un perfetto set di un film di cappa e spada. Si trova incastonata tra il trevigiano e il friulano, a pochi chilometri dall’antichissimo centro paleoveneto di Opitergium, l’odierna Oderzo e dalla friulana Pordenone. Qui, all’ombra dei palazzi risalenti all’Età di mezzo e, poi, sotto l’ala protettrice della Serenissima, le genti rurali e le antiche famiglie feudali hanno lasciato delle impronte indelebili della loro attività materiale e spirituale, tanto da costruirvi uno scrigno prezioso, capace ancora oggi di suscitare delle profonde emozioni.

Il corso del fiume Livenza è stata l’anima dell’abitato, il cui carattere navigabile ha caratterizzato la vita e i commerci per le epoche passate, quindi non un limite, un confine bensì visione di nuovi orizzonti. Oggi, la cartolina del panorama appare ben diversa, rispetto ai secoli trascorsi. Nel 1924, la Livenza è stata allontanata dall’abitato e il suo corso si è interrato, anche se è ancora possibile averne un’idea sotto il Ponte Friuli, dove s’intravvede l’antico alveo, oltre alla romana mascherona della verità, fissata alla meno peggio a quelle che sembrano i miseri resti delle fortificazioni di epoca medioevale.

Le testimonianze letterarie e cartografiche del passato, in particolare dell’età medioevale, riferirebbero che le origini della cittadina dovrebbero essere ricondotte alla sua funzione materiale. Non a caso l’abitato sulla Livenza è ricordato come “Castro Portus Buffoledi” o “Castellarium Portus Buvoletti”, una piazza fortificata su un canale.

La Livenza, che segna uno dei confini immateriali tra Veneto e Friuli, ha fatto sì che Portobuffolé possedesse una particolare duplicità e fin dai tempi più remoti.

L’ipotesi non peregrina di una “statio” di epoca romana presso il guado del fiume, in località Settimo, ha creato non poche aspettative e delle date suggestioni, che vorrebbero retrodatare le origini del borgo a secoli ben indietro nel tempo. Tuttavia, al momento non sono pervenute delle evidenze archeologiche che lo attestano con una certa autorevolezza, al contrario delle attestazioni successive, che non mancano, anzi. In quegli anni, Portobuffolé indossò quella veste, la sua Forma Urbis, che la contraddistinguerà nei secoli a venire e che, solo l’azione iconoclastica dei tempi moderni e qualche speculazione edilizia – che non manca mai -, cambierà notevolmente, con lo smantellamento delle mura, avvenuto a partire dal XVIII secolo, o con la costruzione di nuovi edifici all’interno del nucleo storico.  

Ci misero sopra gli occhi il Patriarca di Aquileia, il vescovo di Ceneda e di Treviso, nonché le grandi famiglie dei da Camino e dei Carraresi, ma fu sotto la dominazione della Serenissima, che il borgo ebbe il massimo splendore, grazie al commercio del sale e del legname. Gli venne riconosciuto il titolo di città con tanto di stemma araldico, colonna e Leone di San Marco. Il governo cittadino si avvalse di un podestà, di un Ordine dei Nobili, un Consiglio Civico e uno popolare.

Il centro storico vero e proprio conserva dei piccoli gioielli di quella che fu la Marca Gioiosa. Tra queste vi è la cosiddetta Casa di Gaia, la letterata che ha saputo gareggiare con i maggiori ingegni dell’epoca. Aveva una bellezza marcata e aveva della propria vita – costellata da adoratori e di detrattori – una leggenda. Di lei, sposa del conte Tolberto e figlia di Gherardo, signore di Treviso, il celebre letterato Dante Alighieri, così volle ricordarla:

l buon Gherardo

( …) per altro sopranome io nol conosco,

s’io nol togliessi da sua figlia Gaia

(Dante, Divina Commedia, Purgatorio, Canto XVI).

La casa di Gaia è la classica torre di epoca medioevale e si suddivide su quattro piani, ancora in buono stato. Il suo ingresso avviene attraverso un portale di pietra, sopra il quale si osservano tracce di colore rosso. Il soffitto del piano terra è in legno e l’accesso ai piani superiori avviene attraverso scale di legno moderne, dato che in epoca medioevale queste erano mobili e, in caso di bisogno, venivano tirate su.

L’affresco lacunoso del piano primo risale al Quattrocento e mostra delle figure umane: due uomini, di cui un vecchio, e una donna, riconoscibile dai capelli biondi acconciati secondo la moda del momento.

Al piano superiore, un corridoio si apre su quattro stanze ed è del tutto affrescato. L’episodio iniziale raffigura un ragazzino che si appresta andare a scuola, accompagnato da un servo e da un cane. Sulla parete di destra sono ritratti sei uomini, che sono stati identificati come le arti e le scienze. La parete di sinistra si vedono degli armati con panoplie di diversa foggia. Si scorgono delle città, alcune delle quali parrebbero essere fittizia, stando alle interpretazioni più recente, mentre una, quella posta sopra una porta, raffigurerebbe Portobuffolè. Su un altro affresco, nei pressi della finestra, due figure umane sono identificate come Gaia e di suo marito Tolberto, ma vi è chi vi abbia visto, invece, la coppia Achille e la regina delle Amazzoni Pentesilea.

Ritornati all’esterno e ripresa la camminata sulle stradine ciottolate, dove è possibile ottenere qualche cenno di saluto dai non numerosi cittadini, mai ostili ai visitatori, si può continuare il viaggio a ritroso nei secoli, per quanto non tutto è stato restaurato nel modo migliore. Comunque sia, sono arrivati ai giorni nostri la Dogana, il Monte di Pietà, la Loggia comunale e il Duomo, all’interno del quale è possibile ammirare un crocifisso ligneo del Quattrocento. Vale la pena visitarlo. Consacrato il 22 ottobre del 1559, si presenta come un edificio severo e semplice.  L’altare barocco con doppio tabernacolo è arricchito da due sculture che raffigurano i titolari e patroni della cittadina: San Marco, a destra, e San Prosdocimo, a sinistra.  I due santi sono ritratti pure sul soffitto. Al centro della navata vi è raffigurato il “trionfo di San Marco”, mentre sulla porzione sovrastante l’ingresso San Prosdocimo è colto nell’atto del battezzare. Ancora, in prossimità del coro si osserva l’episodio del culto di San Tiziano, vescovo di Oderzo, sotto la benigna visione di Sant’Antonio e San Francesco. Tra le curiosità presenti al suo interno, oltre ai deliziosi altari, vi è un grande crocifisso ligneo del Quattrocento, che risente della scuola tedesca; e la mensa a forma di tomba, che custodirebbe le reliquie di San Gervasio, il martire conservato all’interno della basilica romana minore collegiata abbaziale prepositurale di Sant’Ambrogio a Milano.

Non sempre le cose sono come sembrano essere e nel caso del duomo questo motto sembra calzare benissimo, a proposito di una pagina a dir poco brutta.

In seguito all’editto di Treviso del 12 febbraio 1340, con il quale si ordinava l’allontanamento dai territori veneziani dei banchieri fiorentini, gli ebrei si ritrovarono ben presto a prendere il loro posto nell’attività feneratizia. A Portobuffolè si insediò una piccola colonia di ebrei ashkenaziti, fuggiaschi da Colonia, accusati di aver diffuso la peste all’interno della città. Nati come “pied noir”, come i tanti ebrei alla ricerca di una casa, di una patria nella quale potersi riconoscere, con il tempo assumono a pieno titolo un ruolo di primo piano nel panorama economico e sociale del paese. Per anni la coesistenza tra cristiani ed ebrei non diede problemi, anzi. È attestato sin dal 1464 l’esistenza di un banco di pegno gestito dalla Comunità ebraica. Inoltre, è documentato il rapporto con l’importante Comunità di Conegliano che fa presumere una parentela o coincidenza di interessi.   Poi, si sa, l’invidia è una brutta bestia, non a caso uno dei sette vizi capitali. Nel marzo del 1480, gli ebrei di Portobuffolè furono accusati di aver compiuto un omicidio di carattere rituale. I malcapitati furono arrestati e torturati di santa ragione prima nelle segrete della cittadina, poi il processo venne spostato a Venezia, dove il 5 luglio tre di loro furono condannati a morte. La storiaccia aveva avuto inizio nel corso della Pasqua, quando un’anima pia denunciò al podestà Andrea Dolfin la scomparsa di un ragazzino di nome “Sebastiano Novello, figliuolo di Pietro da Seriate nel Bergamasco, fanciulletto fra i sei ed i sette anni, mendico sì e lacero delle vesti, ma ben nutrito, rubicondo in viso, e con biondi capelli”. (G. Tassini, Condanne Capitali, 1849, pg. 69). Il responsabile, o meglio, gli autori furono individuati negli ebrei del posto, che lo avevano rapito per impastare il suo sangue le azzime pasquali.  Il corpicino esangue fu fatto sparire tra le ceneri di un forno. Il Tassini così descrive l’episodio, seguendo pari passo la tradizione che si era ormai cristallizzata sul fatto di Portobuffolé: “gli turarono la bocca con un fazzoletto, e postolo sopra uno scanno, lentamente lo finirono mediante coltelli e punteruoli. Poscia ne raccolsero il sangue in bacini, e con esso, mescolato al vino, confezionarono l’offe destinate a rallegrare il loro banchetto pasquale, abbruciando in pari tempo il corpo del fanciullo” (G. Tassini, ib. Pg. 70). Il tribunale di Portobuffolè li condannò, credendo in toto alle accuse e alle confessioni estorte con la violenza: “Il podestà Andrea Dolfin li condannò, uno ad essere arrostito, il secondo ad essere sagittato, ed il terzo ad essere fatto in parti da quattro cavalli” (G. Tassini, ib., 70). Gli imputati chiesero di essere nuovamente giudicati da un nuovo tribunale, quello di Venezia, ma le cose non cambiarono. Furono nuovamente giudicati colpevoli e condannati a morte. Il successivo 5 luglio, tra le due colonne di Piazza San Marco a Venezia la sentenza trovò triste esecuzione, mediante rogo; e fu così che Mosé, Yaakov b. Shimon Levi, e l’arcisinagogo di Portobuffolè Servadio morirono pubblicamente tra atroci sofferenze. Degli altri imputati, cinque ebbero miglior sorte, dato che furono semplicemente imprigionati e, in un secondo momento, banditi dal territorio della Serenissima; un altro, avvertito in tempo, riuscì a scappare, mentre un altro ancora, Giacobbe «de la barba» o «barbato» da Verona, non riuscì a reggere l’intera situazione e si suicidò in carcere. Tutta questa vicenda avrebbe assunto dei contorni grotteschi se non si fosse conclusa con una terribile tragedia, dato che tutto ruota intorno alla figura del piccolo Sebastiano, che non è mai esistito. Insomma, inventato in tutto e per tutto di sana pianta. Si è trattato semplicemente di un archetipo antisemita, che li accusava di utilizzare il sangue dei bambini, nel corso della Pasqua ebraica, come l’identico caso di Simonino di Trento – e di tanti altri -, avvenuto nel 1475, di cui si possiede la documentazione legata al processo. Il culto di questi bambini ebbe vasta diffusione attraverso testi a stampa e materiali iconografici e fu abolito dalle autorità ecclesiastiche solo di recente, intorno al 1965.

Stando alla documentazione dell’epoca gli ultimi echi della presenza israelita a Portobuffolé risalgono al 1607 e concernono la conduzione di un banco da parte della famiglia opitergina Luzzato.

Nel frattempo, a Portobuffolè gli eventi trovarono una piega conseguente a quanto stava accadendo a Venezia. Gli edifici della comunità ebraica furono sequestrati e, in qualche caso, cambiarono destinazione; e fu così che l’edificio che era stata una sinagoga divenne decenni dopo l’attuale duomo, dedicato a San Marco e a San Prosdocimo. L’identificazione della sinagoga non è stata accettata da tutti gli studiosi. È stato obiettato che la Comunità d’allora non avrebbe potuto permettersi un edificio così grande e, cosa non secondaria, l’edificio ecclesiastico era dedicato, oltre all’Evangelista, a San Prosdocimo, rifacendosi ad una cappella intitolata a santo patavino, attestata fin dalla fine del XIII secolo.

Di fronte si staglia il Fontego e la Torre Civica. Il primo edificio è il classico palazzo loggiato, risalente al XV secolo e qui gli abitanti si recavano per acquistare la materia prima per il pane e gli altri cereali ad un prezzo controllato dall’autorità pubblica in modo da evitare quelle speculazioni. Inoltre, era il deposito di stoccaggio per i cereali e il sale, che da Venezia si dirigevano verso il Cadore e viceversa. La scultura del leone di San Marco ricorda senza tanti giri di parole il possesso veneziano. Affiancata si fa vedere in tutta la sua imponenza la Torre Civica del X secolo, superstite delle sette torri fortificate dell’originario castello di epoca medioevale. Abitata sulle mura esterne da rumorose e simpatiche cornacchie, oggi la torre ha perso la destinazione di difesa o di prigione. Ospita manifestazioni culturali e un piccolo centro museale, dedicato alla Civiltà contadina.

Un’altra storia del tempo antico è la Dogana del sale, che risale al XVI secolo. Sbarcato e pesato veniva caricato sui carri bestiame e condotto nelle valli alpine. La piazza antistante è dedicata al mercante francese Adriano Beccaro, vissuto sul corso del XIV secolo. Vicino, a destra, faceva bella mostra di sé la Porta Trevisana, la vera e propria via d’accesso della cittadina, ma, purtroppo fu distrutta dalle truppe austro ungariche in rotta. Da qui si osserva la Caserma medioevale, rimaneggiata pesantemente in epoca rinascimentale, dove si possono ammirare resti di affreschi, che la critica ha voluto attribuire a Giovanni de Sacchis, detto “il Pordenone”, vissuto nel XVI secolo.

Vicino il Piazzale del Ghetto, con la casa dell’Arcisinagogo, tanto per capirci accanto al duomo. A quanto pare, dentro la Casa che fu di Donadio dovrebbe essere visibile una pietra, sulla quale sarebbe incisa una sacra Menorah, il candelabro a sette braccia, e alcune parole rituali. Adopero il condizionale, in quanto non sono riuscito a vedere alcunché. Non mi sembrava molto delicato o educato suonare il campanello, soprattutto all’ora di pranzo!

Poco distanti l’antico ospedale, la cui prima pietra fu posata nel 1362 e rimase aperto senza interruzioni fino al secondo anteguerra. La chiesa di San Rocco del XIV secolo ne funge da cappella e al suo interno vi è custodita una pregevole scultura, raffigurante la Vergine.

Una curiosità. Nel vicino cimitero, le spoglie di un aviatore ricordano l’ardimento dei piloti italiani e i voli su Vienna con a capo il “vate” Gabriele D’Annunzio. Il pilota era il tenente Vincenzo Contratti, abbattuto nei cieli del Prà dei gai il 27 ottobre del 1918.

Portobuffolé, un luogo dell’anima, dove è possibile girare per le viuzze, accompagnati solo da sé stessi. Qui, nel silenzio dei secoli, rotto dalla semplice sonorità della natura, è facile farsi catturare dall’atmosfera e, saccheggiando un titolo di un saggio, ascoltare le “voci di Gaia, l’eco dei versi d’una donzella gaia ed insegnata, prima rimatrice in lingua italiana” (Carla Rossi); magari, poco prima di porci nuovamente di fronte al duomo, ripensando ai tratti crudeli di un’umanità, in cui non si può fare a meno di riconoscersi.

Nuovo sfregio a Venezia. Chiesa del Redentore

Nella notte del 16 maggio 2022, ignoti hanno lordato con colore e una frase, che darebbe l’idea di una formula matematica, una statua della facciata della chiesa del Redentore……..

Marianna Concina. Una vita negata

Infissa nella parete esterna della chiesa di Sant’Ambrogio di Fiera di Treviso, una solitaria e grigia lastra tombale racconta, o meglio, dovrebbe raccontare e fissare nella memoria gli attimi salienti di una vita, che attraversò velocemente la seconda metà del secolo dei cosiddetti Lumi. Invece, delle mani ignote e sacrileghe hanno fatto di tutto per cancellare il ricordo di questa vita, macchiatosi di chissà quale ignominia. Al di là di una prima impressione di abbandono, senza che nessuno si preoccupi di tenere viva la memoria, anche il tempo ci mette del suo, raschiando le poche lettere sopravvissute.

Comunque stiano le cose e a dispetto della malignità umana, l’epitaffio ci costringe ad interrogarci sul destino della vita di una giovane donna, che se ne è andata troppo presto, a soli trentatré anni. Il suo nome era Marianna Concina. Una bella fanciulla dai ricci color rame, dagli occhioni forse neri e un incarnato di latte e rosa. Si racconta che il borgo di San Daniele del Friuli abbia dato i natali alla fanciulla nel 1764. Il padre dovrebbe coincidere con uno dei due figli di Giacomo da Concina, divenuto con lettera ducale del 25 agosto 1780 conte del feudo di San Daniele, mentre l’identità della madre dovrebbe corrispondere ad Anna Broili o Brogli da Venzone.

Il genitore, buon figlio del suo tempo, aveva messo al mondo dei figli e regnava nella casa, come un monarca assoluto, soprattutto nei confronti di tutto ciò che faceva parte della sua vita, a partire dalle persone. Con il fine di non disperdere il patrimonio familiare, l’uomo dispose che sua figlia, unica figlia femmina, fosse instradata in un percorso ben definito, offrendo la sua gioventù a Gesù, con il traguardo nella forzata e avvilente vita al convento, secondo l’accorgimento collaudato della consuetudine del maggiorascato. Una pratica questa ben trattata dalla letteratura, basti il romanzo dei “I Promessi Sposi” con il personaggio di Gertrude che, ancora nel ventre materno, la sua condizione era stata già stabilita ineluttabilmente; oppure la piccola Maria nella “Storia di una Capinera” di Giovanni Verga.

Marianna entrò nel convento di San Paolo a Treviso, divenuto successivamente Distretto Militare e, oggi, la sede dell’Università di Cà Foscari.

Indossato l’abito claustrale, la novizia si dimostrò molto obbediente e, a quanto pare, compiva i suoi uffizi con rassegnazione e pregava molto. Da qui poteva vedere “oltre il Sile, sulla sponda sinistra, molta gente che iva e rediva fuor delle mura: erano popolani, cittadini, uomini, donne, fanciulli, che movevano lieti a passeggio fuori del Portello, e s’avviavano al luogo detto la Fiera. Stette…a contemplare l’incantevole veduta; il suo cuore era frammezzo quella gente spensierata, che godeva la vita; ed ella poverina racchiusa, Dio sa quanto! In un convento; ed ora serrata a penare in un luoghicciolo a tetto. Discese alla fine dal finestrino, si gettò sul lettuccio, e pianse e pianse tutta la sera”.

Spesso, molto spesso, il suo volto era pallido e il suo corpo si presentava abbattuto, tanto da ottenere delle dispense dai lavori pesanti. La badessa pensò bene di chiamare il medico, che aveva in cura le religiose. Il quale non trascurò il suo malessere, ordinandogli tutta una serie di cura, ma si preoccupò, inoltre, di fargli conoscere un giovane aitante e di buona famiglia, il nobile Domenico Zuccaredda.

Il ragazzo rimase folgorato da quella apparizione, senza ombra di dubbio un bellissimo “giardino recintato, una fontana sigillata piena solo di acqua chiarissima”, un amore proibito, data la vesta indossata dalla giovane. Fatto sta che la novizia quando gli apparve il giovane di buona famiglia, si lasciò corteggiare, anche perché era più che mai convinta che la corte non fosse altro che l’anticamera del fidanzamento prima e del matrimonio dopo. Marianna “con il suo bel cuoricino aperto a tutte le impressioni, movea sui rialti erbosi, che cingevano l’orto, e strappava le candide margherite. Quindi spiccando loro ad uno ad uno i petali, ripeteva la nota fola: – Mi ama, mi brama, mi vuol bene e via e via, le solite care illusioni e speranze delle innamorate: per cui anche nella fogliolina d’un fiore pare loro di trovar un lieto responso, un segno d’amore” . Finalmente, la giovane donna venne persuasa a lasciare il convento, ma dopo un po’ l’illusa dovette fare i conti con la realtà. Dopo aver conosciuto l’amore sensuale e sessuale, la giovane donna fu buttata in strada. Non gli rimase altro che scrivere al padre, supplicandolo di correre in suo aiuto, ma rimasero parole morte. Non avendo ottenuto nessun aiuto dalla famiglia e non potendo ritornare al convento, prese a vivere in strada, in estrema miseria, dove si ammalò seriamente. Un giorno, il caso gli fece incontrare Andrea Viola, di origini aristocratiche e di professione avvocato. L’uomo, ormai di una certa età, si commosse di quanto venne a conoscenza e prese a cuore la sua situazione. In breve tempo, l’avvocato riuscì ad ottenere la nullità dei voti monacali per la donna e, addirittura, che la famiglia di lei ritornasse sui propri passi, fornendole anche della dote necessaria per il suo futuro.

I due s’innamorarono e il 7 maggio del 1793 convennero alle nozze. L’idillio della luna di miele non era destinato a durare a lungo. Nel giro di poco tempo, un anno e poco più, le condizioni di salute di Marianna erano precipitate. Non c’era stato nulla da fare. La donna fu vinta dalla tisi, che aveva contratto nel periodo trascorso in strada, abbandonata da tutti. “I registri parrocchiali di Santo Ambrogio della Fiera ricordano morta la Concina, «assalita da una febbre consuntiva pel corso di sedici mesi, cagionata da congestione polmonare…»”.

Rimasto vedovo soffocò nel silenzio il suo dolore, ma il suo lutto rimase a covare sotto la cenere, pronto a riemergere in qualsiasi momento. La fede rimase il suo sostegno, la forza e il coraggio per andare avanti. Contro tutto e tutti, l’uomo volle seppellire la giovane moglie all’interno della chiesa di Sant’Ambrogio. Anni dopo, allorché venne meno chi la piangeva, posandole un semplice giglio sulla sua lastra, in ossequio alle ambiguità e alla ipocrisia della morale borghese, ci si preoccupò di profanarne la tomba, disperdere per sempre i suoi resti e collocare all’esterno la sua lapide, dove tuttora si trova, testimonianza silente di una vita negata nel secolo dei Lumi. Non contenti di tutto ciò, ci fu anche chi volle cancellare ogni suo ricordo, cancellando ogni singola riga dell’epitaffio. Ma, come spesso accade, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il celebre proverbio trovò sua applicazione nella curiosità di un letterato, nato nel veneziano, a Martellago, di nome Francesco Scipione Fapanni (1804- 1894), il quale, prese spunto dalla vicenda e pubblicò un romanzo, intitolandolo “La monaca del Sile”. Lo scritto trovò le stampe nel 1870 sull’Osservatore Veneto e, grazie al successo conseguito, vi furono diverse successive ristampe.

Fu così che, nonostante la malevolenza di molti, il nome della povera donna non è andato perduto, anzi. Nel suo volume, da cui abbiamo tratto e ricopiato i diversi virgolettati, lo scrittore si prese la cura di ricopiare quanto vi era scritto nella lapide, a partire dal suo nome e cognome di nascita:

Certo, c’è stata molta perfidia in questa vicenda. Ma è stata vana, per fortuna. Il tentativo maldestro di celare la vita della donna ha, invece, stuzzicato l’interesse del letterato, che si è ben guardato dal seguire l’empio esempio. Alla fine dei giochi, dei nostri benpensanti non è rimasta alcuna traccia, mentre… Quando si dice della legge del contrappasso. Eh sì, davvero una legge divina. Inoltre, pare, almeno stando a quanto si racconta, che in una villetta del capoluogo della Marca si custodisca un’immagine che ritrarrebbe la giovane Marianna in un momento gioioso della sua vita.

E chissà che, lontani dagli occhi severi delle autorità ecclesiastiche e del popolino, sempre pronto a giudicare, questa coppia d’innamorati abbia trovato appagamento delle loro emozioni, insegnandoci cosa sia capace di fare l’amore.

Le Grotte del Caglieron. Breda di Fregona (Tv). La meta ideale di una scampagnata

Sulla celebre area pedemontana, poco lontano da Vittorio Veneto, si estende il celebre altopiano del Cansiglio, che accoglie alle proprie pendici Fregona, un comune sparso fatto di piccoli borghi, adagiati in buona parte su un paesaggio collinare, che di rado supera un’altezza di seicento metri. La cornice naturale che lo circonda è davvero unica e suggestiva. Il Pizzoc (alto 1.565 m.), il Millifret (1.581 m.) e il Visentin (1.763 m.) sono alcune delle cime che ornano questi borghi del trevigiano, che, peraltro, possiedono un patrimonio naturalistico tra i più suggestivi, in buona parte protetti nella Riserva naturale integrale di Piaie Longhe – Millifret, nella Riserva Statale di Campo di Mezzo – Pian di Parrocchia e nella Riserva naturale del Bus della Genziana. Lo scenario straordinario della natura incontaminata offre alla vista delle incantevoli fonti e torrenti come l’impetuoso e ricco di fauna Caron o il Caglieron, che, a Breda di Fregona, ha intarsiato una profonda forra, fatta propria anche dall’uomo per le attività estrattive. Qui non ci s’imbatte in grandi opere prestigiose della mano umana, ma i segni dell’umile lavoro quotidiano, che ha permesso la fornitura del materiale necessario, la “piera dolza”, alla costruzione di tante abitazioni delle diverse località vicine, compresa Vittorio Veneto.

Le grotte del Caglieron sono indubbiamente una meta ideale per chi ama il contatto con la natura in tutta sicurezza. Una facile passeggiata che si snoda tra sentieri, ponti, scale e tunnel scavati nella roccia o su passarelle, accompagnati da panorami magnifici e scorci nascosti.

Dopo aver parcheggiato l’autovettura in uno dei tanti posti riservati e preso il ticket d’ingresso al Centro Visite, il percorso inizia in Via Ronzon, dove si attraversa il torrente attraverso un ponte di legno e si può accedere alle grotte del Breda e di San Lucio. Sempre accompagnati dai numerosi pannelli illustratori, si segue il cammino e, finalmente, il frastuono del torrente, informa del suo lavorio compiuto senza sosta. Il colpo d’occhio sulla forra è fantastico e, sempre in piena sicurezza, le passerelle sospese permettono di rivivere in piccolo il viaggio di Verne al centro della Terra. Al di fuori della forra, il sentiero porta all’antico mulino, oggi ristorante con menù della migliore tradizione culinaria locale, e al mulinetto. Il sentiero, che presenta delle diversioni affascinati, si chiude poco dopo sulla Provinciale 151, la strada d’arrivo.

Alla fine, è un posto bellissimo. Ideale per un’escursione in giornata, con un percorso adatto a tutti, dove è possibile avere un’offerta di eccellenza e un’accoglienza di qualità, il giusto viatico per chi ama l’ecoturismo e il vivere slow.

PS. Per informazioni, orari e giorni d’apertura verificare presso sito web pro loco Fregona.

IL Sepolcro di Antenore. Il saggio troiano

A Padova, la “migliore tra le città in questa regione”, volendo dare ragione alle parole del geografo greco Strabone (5, 7.1), nel cuore della sua tramatura urbanistica romana, medioevale e rinascimentale, un’edicola in mattoni rimanda alle origini mitiche della città, ricordate dal sommo poeta di Mantova, che prese a cantare le armi e l’eroe, che per primo dalle coste di Troia, profugo per fato toccò l’Italia e le spiagge lavinie. La copertura del tempietto cuspidato sovrasta il sepolcro di colui che avrebbe fondato la città, il teucro Antenore, figlio di Esiete e di Cleomestra, sposo fedele di Teano; e considerato il più saggio tra i membri del Consiglio degli Anziani del re Priamo di Troia. A pochi palmi di mano, un secondo sepolcro, che la pietà popolare volle per il filologo e letterato padovano Lovato dei Lovati, considerato a ragione il padre dell’umanesimo, il movimento culturale caratterizzato dalla riscoperta dell’antichità nei suoi molteplici risvolti. Tra le sue numerose attività filologiche, si ricorda il lavoro di ricostruzione effettuato sull’opera dello storico latino Tito Livio, reso possibile anche attraverso la scoperta delle decadi liviane rinvenute nell’Abbazia di Pomposa.

Nell’anno del Signore 1257, degli operai lavoravano nel cantiere della Cà di Dio, l’ospizio che offriva l’accoglienza ai bambini abbandonati, quando, tra lo stupore dei presenti, vennero alla luce “due vasi di monete e una cassa di piombo racchiudente un’altra cassa di cipresso con lo scheletro di un soldato con spada” (Zaramella, 19, 63). Sull’onda dell’entusiasmo della scoperta, fu chiamato il Lovati, il quale, influenzato dagli amati studi classici e da un sottile pragmatismo che non guasta mai, non tardò a riconoscervi nelle spoglie del mitico fondatore della città, il principe guerriero celebrato da Virgilio nell’Eneide (I, 242-249). Una così grande legittimazione delle origini della città urtò qualche nervo scoperto dei vicini, sempre pronti a calcare la mano sull’altezza del proprio campanile. Un cantore veronese, rimasto anonimo, si prese la briga di minimizzare l’avvenimento buttandolo sul ridicolo, e raccontando che le ossa del troiano erano state trovate da una scrofa intenta a pascolare dentro il cantiere.

La notizia del ritrovamento straordinario fece subito il giro della città e molti si ricordarono di una vecchia profezia, che circolava da lungo tempo: “Quando la Capra parerà e ‘l Lovo che responderà, Antenore se leverà”. Volle il caso che la persona incaricata a sovraintendere ai lavori facesse di cognome Capra e Lovo ovviamente non poteva non ricordare il letterato padovano; pertanto, di fronte ad una prova così dal vago sentore ontologico, i poveri resti non potevano che essere quelli di Antenore. Il riconoscimento fu festeggiato dai padovani con celebrazioni religiose e civili memorabili che si protrassero per giorni; infine, si eresse un monumento sepolcrale su un lato del ponte romano di San Lorenzo, che attraversava il Naviglio prima di essere interrato.

La scoperta capitò al momento giusto, fu quasi provvidenziale per la città, che si trascinava stancamente con i colpi di coda della guerra tra le diverse fazioni aristocratiche, dopo la cacciata di Ezzelino III da Romano, signore di Verona, Vicenza e Padova, passato alla storia con l’appellativo de il Terribile.

Ezzelino III da Romano

Antenore, quindi, si trovava ad appianare le divisioni, divenendone l’elemento di coesione e di orgoglio cittadino. L’autore della Cronaca Ezzeliniana, il notaio Rolandino, grammatico e insegnante a Padova tra il 1229 e il 1238, rievocò Antenore, assegnandogli un ruolo di primo piano nella tragedia senza tempo tra la tirannide e la libertà. Sotto l’egida del padre fondatore, i padovani avrebbero potuto chiamarsi nuovamente comunità.

Lovati fu incaricato di scrivere un testo commemorativo da incidere sul sepolcro, per sfidare le ingiurie del tempo. Il letterato si buttò a capofitto tra i suoi amati autori e dovette selezionare i passi, soprattutto da Virgilio e Tito Livio, che facevano al suo caso. In effetti, non tutta la tradizione classica era uniforme sulla reputazione del troiano. Un filone, originatesi con la diffusione del mito antenoreo in Occidente, non lo riteneva per nulla una figura edificante, dato che lo si accusava, assieme all’altro eroe troiano Enea, di essere un traditore nei confronti della patria, uno dei reati più infami che potevano essere perpetrati. A sua volta, la tradizione omerica e parte di quella romana lo aveva dipinto come un principe troiano saggio, che aveva sostenuto da sempre la pace con gli Achei e la restituzione di Elena e dei suoi tesori al fratello di Agamennone, oltre al suo intervento che scongiurò l’assassinio dei due ambasciatori, Ulisse e Menelao, progettato da Antimaco, altro consigliere del re troiano (Ilia. VII; Bacchilide, Dith., XV; Apollodoro, Epit. III 28-29). I due achei dimostrarono gratitudine e riconoscenza salvando la vita di Antenore e dei suoi familiari durante il sacco della città. Sulla porta di casa del troiano venne posta una pelle di leopardo e fu risparmiata dal furore delle truppe greche entrate in città (Pausania, X 27, 3; dipinto di Polignoto nella lesche di Delfi; Sofocle, Antenoridi, presso Strabone XIII, I 53, 608).

Padova, Prato della Valle, Statua di Antenore

La migrazione di Antenore sulle coste venete, alla guida di alcuni sopravvissuti troiani e degli Eneti, orfani del loro re Pilemene,  viene ricondotto al V secolo, quando gli ateniesi si trovarono a solcare il mare Adriatico e, attraverso il processo di “troianizzazione” dei popoli indigeni, il mito troiano conobbe sempre nuovi porti (L. Braccesi, la leggenda di Antenore, Venezia, 1997; J. Perret, Athènes et les légendes troyennes d’Occident, in Mélanges offerts a J. Heurgon, Pars, 1976, 791-803).  

Paride arciere, prima metà del V secolo. Museo archeologico di Quarto d’Altino

Di questa frequentazione vi si troverebbe ricordo in una tragedia del poeta Sofocle, andata perduta e riportato da Strabone (XIII, 1, 53, 607-608), per quanto più di uno studioso abbia arricciato il naso sulla sua reale attendibilità.

In epoca romana, il mito di Antenore trovò nuova linfa e fu utilizzato dalla propaganda romana in funzione conciliativa per un problema nella città patavina, che poteva provocare degli sviluppi imprevedibili di notevole rilevanza politica. Lo storico Tito Livio, raccontando della ribellione, avvenuta nel 174 a.C., che minacciava di trasformarsi in una vera e propria guerra civile cittadina, il Senato romano inviò il console Marco Emilio Lepido con il compito di sedare gli animi. In città, il console, la cui stirpe si riconduceva ai profughi di Ilio, conobbe le tradizioni locali troiane e, forse, si rinsaldarono i legami con i Romani, attraverso l’ascendenza troiana. Più tardi, il mito antenoreo dovette fare i conti con la propaganda sviluppata da Mitridate VI del Ponto (111 a.C. – 63 a.C.), imperniata sulla continuità tra il sovrano orientale e gli Eneti, originari della Paflagonia, una regione dell’Anatolia settentrionale, stretta tra Bitinia e Cappadocia.

Ritenute le genti venete di origine venete, in questo periodo si affermò l’esplicita affermazione, communis opinio, di Antenore, quale fondatore della città di Padova (Pomponio Mela, II, 4,2; Marziale, I, 76). Nell’episodio dell’Eneide, che la dea Venere supplica il padre degli dèi di far cessare le pene di suo figlio, ricorda che, nel frattempo, Antenore ha già fondato la sua nuova città e vive in pace:

Antenor potuit mediis elapsus Achiuis

Illyricos penetrare sinus atque intima tutus

regna Liburnorum et fontem superare Timavi,

unde per ora novem vasto cum murmure montis

it mare proruptum et pelago premit arva sonanti.

hic tamen ille urbem Patavi sedesque locavit

Teucrorum et genti nomen dedit armaque fixit

Troia, nunc placida compostus pace quiescit.

Antenore, pure, ha potuto, sfuggendo agli Achivi,

penetrare sicuro il mar d’Illiria, e i lontani

regni Liburni

 e la fonte superar del Timavo,

donde per nove bocche, con vasto rimbombo del monte,

va, dilagato mare, travolge i campi dell’onda muggente.

Si, egli pose qui Padova, sede dei Teucri,

e diede un nome alla gente, e appese l’armi di Troia,

e ora, in placida pace composto, riposa.

La tradizione, che lo tirava in ballo assieme ad Enea nell’accusa di complicità nella caduta della città di Troia, fu ripresa nel corso del Medioevo da Servio, il celebre commentatore dell’Eneide, dove Antenore è presentato come reo di tradimento e in più circostanze.

Dante Alighieri, che conosceva a menadito la glossa di Servio, pensò bene di chiamare Antenorea, la parte più bassa dell’Inferno, dove erano collocati i traditori della patria. Inoltre, l’autore della Commedia, nel V Canto del Purgatorio, si levò via qualche sassolino dalle scarpe nel celebre episodio di Jacopo del Cassero, trascinandovi dentro i maggiorenti padovani del tempo, “traditori abituali”.

Antenora

Sconsacrata e soppressa la chiesa di San Lorenzo nel 1809, dopo aver inglobato l’antico monastero benedettino di Santo Stefano, l’edificio venne demolito nel 1937 e il monumento funerario di Antenore si trovò alle prese con uno strano e, per certi versi, contorto percorso, che lo portò a girovagare per le diverse parti della città, fino a ritornare nell’attuale collocazione, ormai divenuta piazzetta XI Maggio, l’attuale Piazza Antenore, con la demolizione degli edifici per far fronte al nuovo palazzo prefettizio.

Sopra la tomba è possibile osservare due iscrizioni:

Cum quater alma Dei natalia viderat horrens

Post decies octo mille ducenta Caper

Extulit hec Padue preses cui nomen Olive

Cognomen Circi patria Floris erat.

Protestate nobili viro domino

Fantone de Rubeis de Fiorentia

Perfectum fuit hoc opus.

E sul lato ovest, i versi di Lovato:

Inclitus Ant(h)enor patriam vox nisa quietem

Transtulit huc Enetum Dardanidumq(ue) fugas,

Expulit Euganeos, Patavina(m) (con)didit urbem,

Quem tenet hic umili ma(r)more cesa domus.

Il glorioso Antenore, voce tesa alla pace della patria,

Scortò qui la fuga degli Eneti e dei Troiani,

Scacciò gli Euganei, fondò la città di Padova.

Lo custodisce qui una dimora, ricavata da umile marmo.

Sulla tomba di Lovato Lovati è stato inciso:

Tomba di Lovato dei Lovati. Le spoglie del letterato sono andati persi, in seguito ai numerosi spostamenti del sepolcro

T(umulus) Lovati Paduani militis iudicis et poete /

Obiit anno nat(ivitatis) Chr(ist)i M CCC Nono Septimo die intrante Marcio

e

Id quod es, ante fui, quid sim post funera, queris;

quod sum, quicquid id est, tu quoq(ue) lector eris:

Ignea pars celo, cese pars ossea rupi,

lectori cessit nomen inane Lupi. D(is) M(anibus).

Mors mortis morti mortem si morte dedisset,

hic foret in terris aut intege[r] astra petisset.

Sed quia dissolvi fuerat sic iuncta necesse,

ossa tenet saxum, proprio mens gaudet in esse. V(ivens) F(ecit)

Ciò che tu sei, prima io fui, che cosa io sia dopo la morte, cerchi di sapere;

ciò che io sono, qualunque cosa sia, tu pure lettore sarai.

La parte ardente passò al cielo, la parte ossea alla pietra scolpita,

al lettore solo il nome insignificante di Lupo. Agli dèi Mani.

Se la morte della morte avesse dato morte alla morte tramite la morte,

Costui sarebbe sulla terra, o meglio, avrebbe ambito integro alle stelle.

Ma poiché le parti collegate dovevano così necessariamente dissolversi,

la pietra tiene le ossa e la mente si rallegra di essere nel proprio. Fatto da vivo.

Nel settembre del 1985, la cassa lignea contenuta all’interno dell’arca fu oggetto di un sopralluogo. Furono trovate numerose ossa, tutte alla rinfusa, alcune delle quali con parziali lembi di pelle rinsecchita (si disse con tracce di imbalsamazione). Il teschio, che risultava disposto in un angolo della cassa, presentava un’ampia lesione sulla parete frontale, sicuramente provocata da un’arma da taglio. Dall’esame del foro occipitale pare che questo sia stato ampliato successivamente alla sua morte. L’esame dello scheletro, malgrado l’interferenza di altre ossa estranee, ha condotto all’ipotesi che il corpo dovesse possedere un’altezza di un metro e settantaquattro. Sono stati trovati i sigilli risalenti al Duecento, attribuiti all’epoca del rinvenimento e, dopo l’opportuno esame del Carbonio 14, i resti sono stati retrodatati al Terzo secolo con uno scivolo temporale di circa cinquant’anni; per cui l’inumato non poteva essere il mitico Antenore e non stava a galla neppure l’ipotesi che lo voleva come un guerriero ungaro del IX secolo.

Si è potuto appurare che la tomba era stata aperta in precedenza, forse nel 1937, quando erano in corso le lavorazioni in Piazza o, più prosaicamente, da taluni studenti universitari in vena di smargianate nei confronti dell’allora Magnifico Rettore.

Le spoglie del presunto Antenore non rappresentano l’unico mistero del sito. A quanto pare, sotto la tomba sono celati i resti di un giovane ragazzo, passato alla storia grazie alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. La vera vicenda, a cui si era ispirato liberamente lo scrittore, riguardava un ragazzo di nome Girolamo Ortis, originario del borgo friulano di Vito d’Asio, che si uccise a Padova il 29 marzo del 1796, dopo quattro giorni di febbre.

Girolamo Ortis frequentava con successo il quarto anno di Medicina a Padova ed era in dirittura d’arrivo con l’esame di laurea, quando si sarebbe inferto un paio di coltellate, una al petto e una alla gola, che recise la giugulare, uccidendolo dopo poco. Il suicidio avvenne nella camera dove alloggiava nel Collegio Pratense, l’istituzione per studenti meritevoli e bisognosi friulani. La notizia, ovviamente, ebbe una cassa di risonanza incredibile nella Padova di allora e subito si posero molti dubbi sulla mano assassina effettiva e sulle motivazioni che stavano dietro al terribile gesto. Uscirono fuori molte illazioni e si scrissero molte cose. Di certo, nella notte tra il 28 e il 29 marzo, il ragazzo fu visitato dal dottore Furlani, che gli somministrò un antiemetico.  Il giorno dopo, alle prime ore del giorno, l’abate della struttura si trovò a registrare che: «Questa mattina … si trovò immerso nel proprio sangue per due ferite un giovane friulano, scolare di medicina di quarto anno, le quali ferite si diede egli stesso con un coltellino, non si sa da quali cagioni mosso; se non che si sospetta che ciò gli sia intravvenuto per qualche ratto alla testa, essendo febbricitante da qualche dì».

Una lettera del 16 aprile, scritta da don Germanico Ciconi, un sacerdote dell’Istituto a Candido Ortis, al fratello di Girolamo, resoconta su alcuni aspetti sottaciuti:

“Imprudentissimamente il medico Furlani lunedì alle ore 23 gli ordinò uno scrupolo di epichequama in tre parti. Alle ore 24 ne prese due, ma senza niun effetto sino alle quattro ore di notte, che poi fu lasciato solo in camera. Dopo poi quella fatal polvere mise in tal orgasmo la macchina, che privato de’ sensi gli cagionò l’eccesso. Io colà non sapevo se prendermela con il medico per la sua imprudenza, se con il rettore per la poca attenzione, se con il servitore per la poca cura. … Erano disseminate alcune ciarle, dicendo alcuni, che ciò era accaduto per amore, altri per debolezza di testa, coll’aver altre volte tentato di darsi la morte, ma falsa la prima, e falsissima la seconda. Feci tanto che ho voluto sapere il fonte, dal quale erano uscite simili ciarle, e ritrovai essere il signor medico Furlani, e ciò per coprire in qualche maniera la sua ignoranza ed imprudenza.

Il silenzio fatto calare su questo grave fatto di cronaca nera, compreso lo zelo dei fratelli, tutti quanti sacerdoti, che fecero di tutto per “smentire le dicerie e salvare l’onore del nostro povero defunto».

Alla fine, il ventitreenne, “ritrovato nella sua camera ucciso” poté avere il funerale religioso, che si tenne nella chiesa di San Lorenzo. Fu sepolto nella cripta, in aderenza alla facciata, sulla quale era addossata la tomba di Antenore.

Chissà quante volte ci si è imbattuti in questi monumenti, non degnandoli di alcun sguardo. Molto spesso capita di osservare i ragazzi o meno accostarsi a loro, con atteggiamenti indelicati. A loro attenuante si può affermare che molti non conoscono i due monumenti e tanto meno che cosa rappresentino, per cui…In realtà, i due monumenti, per quanto possano apparire piccoli ed insignificanti, rievocano millenni di storia e la saga di un popolo, che di fatto rappresenta un tassello importante dell’epopea della cultura occidentale. Inoltre, è sorprendente pensare che sotto, a qualche centimetro di terra, vi giacciano i resti di un povero ragazzo infelice, che, senza saperlo, la sua tragicità ha dato lo spunto necessario per un nuovo incastro culturale, dato che il là per una delle opere più affascinanti della nostra letteratura. E tutto questo nello spazio di pochi metri. Forse, meriterebbero poco più di rispetto.