Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenem…
Da Poesie italiane.
Città che affondi, dove
la ragione più salda si tramuta
d’un tratto in occhio umido, dove il fratello
delle sfingi del Nord, leone alato e colto,
non grida “da che parte stai?”, chiudendo il libro
felice d’annegare
dentro lo sciabordio degli specchi.
(da Laguna, VII pag.15 in Poesie Italiane, Adelphi, 1996).
Bene o male a tutti quanti noi, veneziani o foresti, basta un semplice colpo d’occhio per riconoscere Piazza San Marco, sforzo tra i più semplici se pensiamo alla sua caratteristica struttura fisica e al profilo del panorama, definito da tutta una serie di edifici, dove fastosità e magnificenza coesistono armoniosamente con l’ambiente circostante. Quale edificio potrebbe illustrare l’imponenza della Piazza meglio della basilica, l’antica cappella del doge dedicata all’Evangelista? Chissà poi quante volte ci siamo proposti di esplorare la città lagunare, non sapendo dove andare e in che cosa ci saremmo imbattuti. Non c’è nulla di meglio che percorrerla alla cieca, facendoci guidare dai nostri sensi. In ogni momento della giornata, la città sa regalare struggenti sensazioni di calore, passione e amore romantico: il sospiro della città. Non a caso, qualcuno arrivò a titolare un volume di qualche tempo fa “Perdersi a Venezia”. Titolo più che mai azzeccato, senza dubbio; d’altra parte, gli autori possiedono la rara intimità con la città per riconoscervi tutte le sue anime. Così, alla fine, sappiamo destreggiarci tra campi e campielli, che accudiscono monumenti superbi e chiese da mozzare il fiato, come San Zaccaria, che si erge maestosa con le sue storie e leggende nel sestiere di Castello, ritenendoli, a ragione, cuori pulsanti della città, grandi o piccoli che siano. Tra questi vi è un luogo di grande rilevanza per la storia e la memoria, all’interno del quale gli animi più sensibili possono immergersi nell’atmosfera irreale e sentire l’eco del passato e delle persone che là hanno calpestato le pietre in cotto o i più robusti “masegni” in trachite nel corso dei secoli. Il luogo è il Campo dei Santi Giovanni e Paolo, il “Campo delle maraveje”, così definito da molti e, giustamente, dedicato ai due fratelli romani, martiri nel 363 d.C., durante la persecuzione di Giuliano l’Apostata. A dirla tutta, molti lo hanno attraversato per motivi ben diversi dall’amore verso l’arte e la storia. Lo sa bene anche lo scrivente. Infatti, qui si trova la struttura ospedaliera cittadina, anch’essa intitolata ai due testimoni della fede cristiana, dove, malgrado l’hub di Mestre, sopravvivono delle eccellenze, quali ad esempio l’Utic e il reparto di Cardiologia con il suo staff decisamente fuori dal comune, per la professionalità e l’empatia.
Comunque sia, il Campo si distende in uno spazio decisamente unico per l’immenso patrimonio storico, architettonico e artistico presente, che in buona parte si raccolgono nella chiesa omonima e negli edifici vicini, quali il Convento, l’Ospizio dei Mendicanti e la Scuola di San Marco, diventati dal 1819 sedi dell’attuale Ospedale Civile. Inoltre, l’interno della chiesa custodisce le spoglie di oltre un centinaio di personaggi noti, e meno noti, della Repubblica, tra i quali ben quindici dogi, tanto da spingere qualcuno a definirla il Pantheon veneziano, e non a torto.
La tradizione vuole che sia stata fondata nel XIII secolo, per l’interessamento della nobile famiglia Tiepolo. A quanto pare, nel bel mezzo di una notte d’estate del 1226, il sonno del doge Jacopo Tiepolo, fu scosso da un sogno. L’uomo, passato alla storia come pio e religioso, vide due bianche colombe incoronate da una croce d’oro e due angeli, che sovrastavano una cappella isolata, di modeste dimensioni, mentre risuonava nel cielo una voce, che proclamava: “Questo è il luogo che scelsi per i miei predicatori”. Al mattino, il ricordo del sogno perdurò al risveglio e ne fece parola al Senato, il quale pensò bene di donare ai frati domenicani il luogo della visione, una vasta area del sestiere di Castello in buona parte disabitato, se non per la presenza di un tempietto dedicato a San Daniele. Il panorama restante era una distesa di acqua e fango, regolata dall’influenza dell’astro lunare.
I domenicani si rimboccarono le maniche e presero a bonificare l’area, fino a toccare le attuali “Fondamenta Nove” e, intorno alla seconda metà del XIII secolo, avviarono la costruzione della chiesa, dando inizio ai lavori dal presbiterio. Dopo diverse pause più o meno lunghe, per lo più causate dalla mancanza di fondi e dall’imperversare delle epidemie, il vescovo di Ceneda, Antonio Contrario, provvide alla sua consacrazione nel 1430.
La chiesa, popolarmente conosciuta come “San Zanipolo”, si presenta come il frutto del fluire del tempo e si mostra come uno splendido esempio di gotico trecentesco, per quanto vi si inseriscono degli influssi protorinascimentali. La sua facciata si definisce di tipo conventuale, in cotto e rosone centrale, tripartita da due lesene, che trovano il coronamento nelle edicole marmoree, all’interno delle quali dominano le statue di San Tommaso d’acquino, San Domenico e San Pietro Martire, sovrastati nei pinnacoli da un’aquila (simbolo di San Giovanni), dalla raffigurazione dell’Eterno e dal leone di San Marco.
Nella parte inferiore della facciata, tra le arcate cieche trovano posto le arche funerarie del doge Marco Michiel, fondatore della chiesa di San Giovanni Evangelista (oggi dedicata a San Pietro Martire) a Murano, Marco Daniele Bon e dei dogi Jacopo e Lorenzo Tiepolo. Il portale è delineato da un disegno ad arcata ogivale, costituita da colonne singole e binate di marmo, provenienti dall’isola di Torcello. Sopra, nella lunetta, trovano posto i due santi titolari, mentre nell’architrave risaltano gli attributi iconologici di San Domenico: il giglio della purezza; la palma della vita eterna; la stella apparsa durante il suo battesimo e il cagnolino con la fiaccola ardente, simbolo della fedeltà all’ortodossia e di lotta all’eresia.
La pianta interna è a croce commissa e si dispiega su tre navate, già segnalate dalle lesene, attraverso dieci pilastri che sorreggono le arcate a sesto acuto e le volte a crociera. Con il transetto e le cinque cappelle absidali, il tempio raggiunge la lunghezza di poco superiore a centro metri e una larghezza massima del transetto di poco inferiore ai cinquanta metri.
John Ruskin, il grande professore di storia dell’arte a Oxford, mentre si appresta a compiere il suo viaggio tra le architetture sepolcrali lungo le pareti di Ss. Giovanni e Paolo, così esordisce: “Nel secolo XV nessuna forma d’arte è così rappresentativa del carattere nazionale di un popolo come quella che si rivela nelle tombe…Agli uomini del XIV secolo il sepolcro si presentava come un amico apportatore di riposo e di speranze; per gli uomini del secolo XV, invece, esso era lo spogliatore ed il vendicatore…Questo cambiamento nelle linee dei monumenti sepolcrali è comune a tutta l’Europa. Ma a Venezia, che per alcuni riguardi è il centro del Rinascimento, questo mutamento è espresso in circostanze straordinariamente favorevoli, perché noi ne possiamo ricavare le caratteristiche più spiccate” (J. Ruskin, Le Pietre di Venezia, 1987, pp. 298-299). Pertanto,
con in mano il volume dello studioso ottocentesco, che rimane sempre attuale, facciamo il nostro ingresso, dove sarà possibile osservare il cambiamento della concezione architettonica funeraria, dal sarcofago sopra la mensola a quello più recente, che vede il defunto disteso nel cataletto. L’impatto emozionale delle tre navate è davvero forte, da lasciare senza fiato. Lo sviluppo delle pareti è scandito dai monumenti funerari e dai numerosi complessi scultorei, che attorniano in un giro tondo della bellezza, l’altare maggiore, realizzato da Baldassarre Longhena e dal trentino Matteo Carneri nel 1638; e le dodici croci in bassorilievo che, stando a quanto il domenicano Jacopo da Varagine aveva lasciato scritto nella sua opera, avevano la capacità di lasciare fuori il demonio dalla chiesa e affermare il trionfo di Cristo.
Nel silenzio solenne, lo sguardo è ammaliato dalla controfacciata interamente ricoperta dai monumenti funerari della nobile famiglia dei Mocenigo. Al centro si trova il sepolcro di Alvise I Mocenigo, morto nel 1577, e di sua moglie, la colta Loredana Marcello. La quale, ricordata per i suoi studi di botanica e di storia, morì in giovane età e fu imbalsamata. Sopra la veste conventuale della Croce della Giudecca, le fu deposta una veste preziosa, del tutto ricamata da fili d’oro.
A sinistra, il Mausoleo di Pietro Mocenigo, doge e “Capitano do Mar”. Il monumento rompe con gli schemi del passato, per la sua innovativa rispondenza artistica e iconologica. Esso è fiancheggiato da sei nicchie occupate da sei militi romani in lorica, forse generali. Il sarcofago, retto da tre figure, è tripartito dalla presenza di rilievi scultorei. Nel centro del sarcofago compare un’iscrizione latina, che reca la scritta “Ex hostium manubiis” (dalle spoglie del nemico). Il valore militare del defunto è rimarcato ai lati con le immagini delle sue imprese più famose, mentre nella parte inferiore si osservano “Ercole e il leone Nemeo” e “Ercole contro l’Idra”.
Lo stile, debitore di influssi rinascimentali fiorentini, presenta numerose novità. Come è una novità la posa del doge, colto non nella consueta posizione supina, ma eretta, da persona risorta dalla morte.
A destra, invece, si trova la tomba di Giovanni Mocenigo, morto di peste nel 1485. Inizialmente fu sepolto nel vicino sepolcro dello zio Pietro; solo nel 1522 le sue spoglie furono deposte nell’attuale arca.
Sul pavimento, di fronte, vi sono le lastre tombali di Alvise I, Alvise III Sebastiano e Alvise IV Giovanni Mocenigo.
Da qui si arriva al sarcofago del doge Rainieri Zen, morto nel 1268. Il fronte presenta delle ascendenze stilistiche bizantine con le decorazioni del Cristo seduto sul trono con due angeli ai fianchi. Si supera l’altare rinascimentale con la tela della Madonna con Bambino e santi,
e si raggiunge il mausoleo di Marcantonio Bragadin, l’eroico governatore della città fortezza di Famagosta (oggi Gazimağusa) a Cipro, che, dopo mesi di assedio, nell’agosto del 1571 si trovò nelle condizioni di cedere le armi all’armata turca al comando di Lala Kara Mustafa Pascià. Dopo la resa, il nobile veneziano e i suoi cinquecento soldati furono massacrati. Al Bragadin mozzarono le orecchie e il naso. Lo trascinarono per le vie della città carico di pietre. Alla fine, venne denudato e scorticato vivo e le sue membra distribuite all’esercito. La sua pelle fu imbottita di paglia e ricucita, dandogli una parvenza di un essere umano. Il simulacro fu legato alla sella di una mucca, che fu trascinata in città. In seguito, fu portato a Istanbul e collocato all’interno dell’arsenale, dove un prigioniero cristiano, il veronese Girolamo Polidoro, riuscì a sottrarla, prima di scappare dalla schiavitù. I resti, oggi, sono custoditi nell’urna del monumento, attribuito a Vincenzo Scamozzi, come se fossero delle vere e proprie reliquie.
Quindi l’altare al domenicano spagnolo San Vincenzo Ferrer, abbellito dal polittico realizzato da Giovanni Bellini intorno al 1465. La cornice dorata racchiude l’Angelo Annunziante; Cristo morto sorretto da due angeli; Maria Annunziata; San Cristoforo; San Vincenzo Ferrer in estasi; e San Sebastiano; completano i cinque episodi della vita di San Vincenzo Ferrer. Sotto il ciclo pittorico trovano collocazione le spoglie del beato Tommaso Caffarini, confidente di Santa Caterina da Siena.
In seguito, il monumento, con il busto sopra l’urna e due sculture tra le due colonne, del senatore e grande oratore Luigi (Alvise) Michel, morto nel 1589.
Pochi passi e si raggiunge la barocca Cappella del Beato Giacomo Salomoni (la gotica del Nome di Gesù) dedicata all’asceta e mistico Frà Giacomo Salomoni, dell’ordine dei frati predicatori. Invocato come intercessore per la guarigione dai mali incurabili, i suoi resti furono traslati da Forlì e nel 1939 posti nell’altare della cappella a lui dedicata. Il soffitto è un florilegio di dipinti di Giovanni battista Lorenzetti. Nel centro risalta il Gesù Bambino, ai lati il Cristo Salvatore e le sue tre personificazioni: Filius Josedec, Nave e Filius Sirach. Lungo le pareti sono collocate delle sculture, raffiguranti Elia e Daniele, Zaccaria e David. Notevoli le pale del fiammingo Pietro Mera, nelle quali sono ritratti il Battesimo di Cristo, la Circoncisione di Cristo. Sull’altare, invece, è collocata la pala di Pietro Liberi (1650) con rappresentati la Maddalena e San Luigi di Tolosa ai piedi del crocifisso.
Davanti, si trova la lastra sepolcrale del primicerio di San Marco, il nobile Alvise Diedo, morto alla fine del XV secolo.
Accanto, l’oratorio dedicato a San Filippo Neri, impreziosito da dipinti di Gregorio Lazzarini.
Alla fine della navata destra il complesso funerario della famiglia Valier, commissionato dalla dogaressa Elisabetta Querini, morta nel 1708. Il monumento, realizzato da Andrea Tirelli su disegni di Antonio Gasperi, prende movimento nel padiglione di marmo giallo, delimitato tra quattro colonne corinzie, con le sculture che raffigurano i dogi Bertuccio, Silvestro e di sua moglie Elisabetta. Nel piedistallo vi sono raffigurate le sette virtù, attraverso sette bassorilievi: la “Benevolenza”, la Carità”, la “Costanza”, il “Tempo”, il “Valore”, la “Mitezza” e, infine, la “Vittoria”, realizzate da Pietro Baratta, Giovanni Bonazza e Antonio Tarsia. L’ultimo bassorilievo rappresenta una chiara allusione alla battaglia vittoriosa ai Dardanelli, conseguita dalla flotta veneta il 26 giugno 1656.
Sotto la statua di Bertuccio si legge:
BERTVCIVS VALERIVS DVX PRVDENTIA
ET FACONDIA
MAGNVS HELLESPONTIACA VICTORIA MAIOR
PRINCIPE
FILIO MAXIMVS OBYT ANNO MDCLVIII
Sotto Il doge Silvestro:
SILVESTER VALERIVS BERTVCII FILIVS
PRINCIPATVM
AEMVLATIONE PATRIS MERVIT MAGNIFICENTIA
ORNAVIT SYRMENSI PACE MVNIVIT
OBIIT ANNI MDCC
Infine, sotto la dogaressa:
ELISABETH QVIRINA SILVESTRI CONIVX ROMANA
VIRTVTE VENETA PIETATE ET DVCALI CORONA INSIGNIS OBIIT MDCCVIII
Attraversato il varco, sotto il monumento funerario, si accede alla Cappella della Madonna della Pace, in precedenza dedicata a San Giacinto. La volta è abbellita dagli stucchi di Ottavio Ridolfi, mentre i quattro medaglioni sono di Jacopo Palma il Giovane, che illustrano le allegorie delle virtù possedute da San Giacinto. Ai lati due grandi dipinti. A destra la tela di Antonio Vassilacchi con rappresentata la “Flagellazione”, mentre a sinistra vi è il “Giacinto passa miracolosamente un fiume” di leandro Bassano. Nel vestibolo della cappella venne posto il sarcofago del doge Marin Faliero con la testa mozzata fra le gambe per il suo celebre tradimento. Quando la cappella fu oggetto di restauro nell’Ottocento il sarcofago fu aperto e, in effetti, il corpo ritrovato si presentava in queste condizioni. Il sarcofago fu portato al Museo Correr, mentre le ossa sono state portate nell’isola ossario di Sant’Ariano.
Alla fine della navata, si ammira la cappella di San Domenico, realizzata da Andrea Tirali nel 1690. Le pareti sono decorate da sei bassorilievi, che raffigurano la vita del santo. Cinque sono in bronzo e sono attribuiti a Giuseppe Maria Mazza, il sesto, in legno, è di Giobatta della Meduna. Sul soffitto vi è la tela, che raffigura la Gloria di San Domenico del 1725 di Giovanni battista Piazzetta, quando quattro pennacchi laterali contengono quattro tondi con le allegorie della Religione, della Mansuetudine, della Fortezza e della Giustizia.
Poco in là il piccolo altare dedicato a Santa Caterina da Siena, dove nel 1961 è stata deposta la reliquia del piede della Santa.
Sul transetto destro si trovano i monumenti funerari di Nicolò Orsini, Frà Leonardo da Prato e di Dionigi Naldi, condottieri veneziani, caduti durante il conflitto con la Lega di Cambrai. Queste furono le prime tombe erette a spese della Serenissima in segno di gratitudine per la lealtà con cui avevano combattuto in nome della Repubblica. Sulle pareti sono inserite l’Incoronazione della Vergine della scuola di Giambattista Cima, la Elemosina di Lorenzo Lotto e il Cristo fra gli Apostoli Pietro e Andrea di Rocco Marconi.
Sulla parete di fondo della crociera, si svela la vetrata, il grande finestrone in stile gotico, alto ben 17 metri e largo sette metri e mezzo. Il capolavoro è stato realizzato nel 1510 dal maestro vetraio Giannantonio Licinio da Lodi sui cartoni di Bartolomeo Vivarini, pittore del primo rinascimento veneziano. Il maestro muranese pose mano anche alle immagini, mentre Cima da Conegliano sarebbe l’artefice della Madonna e dei Santi Giovanni Battista e Pietro; per ultimo, la parte inferiore fu fatta da Girolamo Mocetto. La vetrata possiede un suo certo che, difficile da definire subito. Di certo, è un richiamo mistico, non solo per gli uomini del passato, ma anche per chi vive nella quotidianità come la nostra. Gli spazi interni e gli elementi architettonici divengono fluidi, quasi immateriali. La luce, con il trascorrere delle ore, cambia toni e colori che rievocano quanto affermava il duecentesco Pierre de Roissy: “…le finestre dipinte sono delle scritture divine, perché spandono la luce del vero sole all’interno della chiesa, vale a dire nei cuori dei fedeli, illuminandoli al tempo stesso”. Il tema della trama narrativa è la rivelazione di Dio nella storia. L’ossatura del racconto biblico si dipana dall’alto verso il basso e il principio s’identifica con l’atto della Creazione, attuata da Dio con la presenza dello Spirito Santo, raffigurato sotto l’iconica forma della colomba. Procedendo nella lettura, l’arcangelo Gabriele rivela l’imminente avvento del messia, come annunciato da Mosè e da Davide. La narrazione prosegue con la Vergine Maria con in braccio il Bambino, additato da Giovanni Battista come Figlio di Dio. I quadri inferiori ritraggono gli Evangelisti e i quattro dottori della Chiesa occidentale: Agostino, Ambrogio, Girolamo e Gregorio. Quindi è la volta dei santi Domenico, Vincenzo Ferrer, Pietro da Verona e Tommaso d’Aquino. L’intreccio si conclude con San Giorgio e San Teodoro, due patroni della città lagunare, effigiati con la panoplia militare; e i due titolari della chiesa.
Sul lato destro del presbiterio si apre la Cappella del Crocifisso, dove la Confraternita di San Girolamo e dell’Assunta si riuniva. Il colore nero della pietra dell’altare, opera di Alessandro Vittoria, rimanda agli uffici di assistenza spirituale ai condannati a morte. Come sono del Vittoria le due statue, la Vergine e San Giovanni Evangelista, poste al di sotto del Crocifisso di Francesco Cavrioli.
Poco più avanti, sulla parete, si trova la tomba di Edward duca di Windsor, ambasciatore inglese, morto nel 1574.
Poco in là il sarcofago della seconda metà del XIV secolo, che dovrebbe custodire i resti di Paolo Loredan, anche se nulla lo indichi con certezza.
Quindi la Cappella della Maddalena, per la scultura della Santa, che però fu qui posta nell’Ottocento, provenendo dalla Chiesa dei Servi. Sulla parete è collocato dal 1921 il monumento funerario di Vettor Pisani, l’ammiraglio vittorioso nella Guerra di Chioggia contro i Genovesi nel 1380. In origine il monumento si trovava nella chiesa soppressa di Sant’Antonio a Castello. Vicino il monumento al pittore Melchiorre Lanza con la statua di Melchior Barthel, conosciuta come la statua “della donna vanitosa”, che, guardandosi allo specchio, vede specchiarsi l’immagine della morte.
Sempre sulla parete destra si trova il sepolcro del doge Michele Morosini, morto di peste nell’ottobre 1382, morto dopo soli quattro mesi di dogado. Commissionato dalla moglie, il monumento lo raffigura in abiti dogali, disteso sul letto funebre. Due angeli tendono le stoffe del baldacchino, quando due statue di diaconi sembrano vegliare sul defunto. Sulla lunetta musiva sono raffigurati, sia il doge che la moglie, colti nell’atto di pregare.
Di seguito, il monumento di Leonardo Loredan, il doge delle guerre contro i Francesi, l’Impero e i Turchi. Il fastoso sepolcro, realizzato nel 1571-1572, fu realizzato dallo scultore e architetto Girolamo Grapiglia. Le statue presenti, che raffigurano Venezia, la Lega di Cambrai, la Pace, l’Abbondanza sono di Daniele Cattaneo e alludono alla riconquista della terraferma da parte di Venezia, dopo la sconfitta di Agnadello del 1509.
La sepoltura di alcune suore del terzo Ordine Domenicano, anticipano lo splendido mausoleo del doge Andrea Vendramin, morto nel 1478. L’impaginato architettonico è alquanto complesso e classicheggiante, come classicheggianti sono i richiami all’architettura con l’Arco di Augusto a Rimini e il più tardo Arco di Costantino a Roma. Non mancano evocazioni iconografiche allegoriche, quali quelle provenienti dall’Hypnerotomachia Poliphili, il celebre romanzo misteriosofico, stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel 1499 e attribuito a Francesco Colonna, frate domenicano a Ss. Giovanni e Paolo. Il doge è raffigurato disteso sul catafalco con le mani sul petto. L’urna è decorata dai rilievi delle tre virtù teologali e dalle quattro virtù cardinali, mentre sulle nicchie laterali si vedono altre sculture, che hanno sostituito le originarie di Adamo ed Eva, metafore dell’inizio e fine dell’umanità. La lunetta è completata con il bassorilievo che raffigura il doge mentre viene presentato alla Vergine per intercessione di San Marco.
Subito dopo, il monumento di Marco Corner, eletto doge il 22 luglio 1365, alla ragguardevole età di ottant’anni, trascorsi in buona parte tra importanti incarichi militari e diplomatici. Il sarcofago, di pietra d’Istria, regge la scultura del doge con la spada. Sopra il catafalco trovano spazio cinque edicole, impreziosite dalle sculture della Vergine con bambino, di San Pietro, di San Paolo e due angeli.
Lasciato alle spalle il presbiterio, si segnalano la Cappella della Trinità e quella di San Pio V. La prima possiede un importante corredo pittorico. Innanzitutto, la pala dell’altare, che dà il nome alla Cappella, raffigura la Trinità, la Vergine, gli apostoli e San Domenico. Sulla parete, invece, si staglia l’Incredulità di San Tommaso. Ambedue i dipinti sono della mano di Leandro Bassano. Completano i dipinti di Giuseppe Porta detto il Salviati, che raffigurano la “Crocifissione”, il “Risorto con gli apostoli Jacopo, Tommaso, Filippo e Matteo”; e la tela del romano Lorenzo Gramiccia con tema la “Madonna del Rosario”.
Avanti ancora e si raggiunge la Cappella Cavalli o di San Pio V. All’interno è collocata l’urna del comandante Jacopo Cavalli, morto nel 1385, dietro alla quale si osserva un affresco raffigurante la Guerra di Chioggia, opera di Lorenzino di Tiziano; e il monumento del doge Giovanni Dolfin, morto nel 1361, decorato ulteriormente con la tela di Giuseppe Heintz con il Miracolo della mula di Sant’Antonio da Padova, risalente al 1670.
Accanto al grande orologio a ventiquattro ore dell’inizio del XVI secolo, posto sul portale della Cappella del Rosario, è collocato il mausoleo voluto da Nicolò Venier per suo padre, il doge Antonio Venier, morto di tristezza per le pene del figlio o, stando alle cronache, per i contrasti tra la nobiltà veneziana. Il monumento contiene spoglie non solo della coppia dogale, ma anche del figlio Nicolò e della nuora Petronilla de Tocco e della nipote Orsola.
Poco più in là, la statua bronzea del doge Sebastiano Venier, l’ammiraglio veneziano della celebre battaglia di Lepanto. La scultura è di recente fattura ed è stata realizzata da Antonio del Zotto nel 1907, allorché si spostarono i resti dell’ammiraglio dalla chiesa di Santa Maria degli Angeli a Murano. Sempre sul transetto si trova la statua equestre del condottiero Leonardo da Prato, Cavaliere di Rodi e Balivo di Venosa, morto nel marzo del 1511 e sepolto con tutti gli onori militari.
Dopo di che si apre la Cappella del Rosario, realizzata da Alessandro Vittoria nel 1582, per celebrare la vittoria di Lepanto, avvenuta il 7 ottobre 1571, ricorrenza della Madonna del Rosario, sulle fondamenta di una precedente cappella del Trecento dedicata a san Domenico. Attraversato il varco del portale dell’orologio, vi si accede nella navata rettangolare con presbiterio. Un terribile incendio, avvenuto nell’agosto del 1867, la distrusse quasi interamente, mandando in fumo opere inestimabili, come la “Crocefissione” di Jacopo Tintoretto o i dossali lignei dello scultore bellunese Andrea Brustolon. Nel 1932, il soffitto della Cappella venne decorato e abbellito con tre tele di Paolo Veronese: L’Annunciazione, l’Assunzione e l’Adorazione dei pastori. Il ciclo pittorico proveniva dalla chiesa dell’Umiltà alle Zattere, soppressa con decreto napoleonico nel 1806. Le pareti laterali si presentano con dossali di legno, lavorati da Giacomo Piazzetta nel 1698, e, quasi timorosi alla vista, si scorgono i relitti delle sculture di Alessandro Vittoria (San Domenico, Santa Giustina) e di Gerolamo Campagna (San Tommaso d’Aquino e Santa Rosa). La decorazione delle pareti è completata da tele di rilievo, in parte provenienti dalle Gallerie dell’Accademia. Si segnalano, tra le molte, Gesù e la Veronica di Carletto Caliari; il Martirio di Santa Cristina di Sante Peranda e la Natività di Paolo Veronese. L’altare è sovrastato da un tabernacolo, che custodisce la statura della Madonna del Rosario, realizzata nel 1914 da Giovanni Dureghello.
Nella navata di sinistra, in prossimità dell’organo, costruito nel 1912 da Beniamino Zanin, è possibile scorgere la lapide commemorativa con la data di consacrazione della chiesa. Più avanti, il sito originario della sepoltura dell’artista Jacopo Negretti, conosciuto come Palma il Giovane, morto “oppresso dal catarro” nell’ottobre 1628. Oggi, il ricordo dell’artista viene commemorato più avanti con un busto, assieme a quello dello zio Palma il Vecchio e a quello di Tiziano, posizionati in prossimità della sacrestia. Oltre, si raggiungono i monumenti funerari del doge Pasquale Malipiero, morto nel 1462, e del doge Michele Steno, passato a miglior vita nel 1413, i cui resti erano, in origine, preservati nella chiesa dedicata a Santa Marina, soppressa il 18 settembre 1810 e demolita dieci anni dopo. In seguito, segue la tomba del letterato Alvise Trevisan, morto nel 1528. Lo Steno passò alle cronache per aver più volte osteggiato e dileggiato il doge Marino Falier. Il 20 novembre 1354 fu condannato per aver scritto in una sala di rappresentanza dogale «multa enormia verba loquentia in vituperium domini ducis et eius nepotis» (Appendici, in Lazzarini, 1963, doc. II, p. 259). Il giochetto costò al nobile Steno un mese di detenzione nelle carceri di palazzo ducale. Non contento fu l’artefice, almeno così si raccontò, della chiacchera maligna sulla moglie del doge: «Marin Falier de la bela moier, altri la galde e lui la mantien».
Sopra quest’ultimi due monumenti, è stato collocato l’urna di Giambattista Bonzio, deceduto nel 1508, dopo aver ricoperto l’incarico di Podestà e Capitano di Rovigo.
Il successivo monumento è quello equestre del condottiero genovese Pompeo Giustiniani, passato alla storia come “Braccio di Ferro”, per la protesi al braccio destro, perso a causa di una palla da cannone durante il terribile assedio di Ostenda, città portuale belga. Morto nel corso dell’assedio di Gorizia nel 1616, fu seppellito in chiesa alla presenza del doge e dei maggiorenti della città. La scultura equestre fu realizzata tra il 1616 e il 1620 ed è sovrastata dal leone marciano, fiancheggiato dalle virtù della forza e della prudenza.
Vicino il monumento del doge Tommaso Mocenigo. Il sepolcro raffigura il doge, morto nel 1423, disteso nel baldacchino, quando due angeli sorreggono un velo sulla scena, sulla quale insiste lo stemma della famiglia, a sua volta sovrastato dalla statua della giustizia.
Il monumento successivo è quello del doge Nicolò Marcello, morto nel 1474, dove è raffigurato con Dio Benedicente e quattro Virtù. Accanto, la statua equestre barocca di Orazio Baglione, divenuto nel 1617 generale della fanteria veneta impegnata contro gli Uscocchi. Morto nello stesso anno a Gradisca d’Isonzo, il Senato gli eresse il monumento.
Alla fine della navata, il sepolcro degli eroi risorgimentali Attilio ed Emilio Bandiera, uccisi nel 1844 nei pressi di Cosenza assieme al patriota Domenico Moro. Seguono le tombe del comandante austriaco Gabriele di Chasteller, morto nel 1825, e del Capitano da Mar Girolamo Canal, morto nel 1535.
Merita un cenno anche la sacrestia, all’interno della quale si trovano numerosi dipinti, eseguiti per lo più a partire dal Quattrocento fino al Seicento. Tutti hanno come soggetto San Domenico, i santi domenicani e gli episodi eclatanti dell’Ordine. Tra i molti si ricordano il Cristo portacroce di Alvise Vivarini, il Crocifisso adorato da santi domenicani di Jacopo Palma il Giovane e il San Giovanni e San Paolo di Pietro Mera.
A lato, sorge un edificio che rappresenta una delle più belle espressioni dell’arte rinascimentale veneziana: la Scuola Granda di San Marco.
Nel corso del Medioevo a Venezia si erano costituite delle confraternite nell’ambito delle comunità parrocchiali, dando vita alle espressioni delle categorie di lavoratori e devozionali, come quella dei Battuti, che si contraddistingueva per la pratica della flagellazione.
Il vocabolo Scuola, derivato dal greco “scholé”, designava in origine un’assemblea con finalità prettamente spirituali. I sodali appartenevano al vivace ceto borghese, dedito al commercio, alle professioni libere, alle arti e alle lettere.
Sul finire del Quattrocento, il Senato veneziano mise mano alla riorganizzazione delle Scuole, numerosissime in città, riordinandole in due gruppi: Grandi e Piccole. Alle prime furono ascritte quelle dei Battuti, alle seconde, invece, vennero poste tutte le altre. Le scuole Grandi erano sei e ciascuna aveva un proprio statuto, conosciuto sotto il nome di Mariegola.
La fondazione dell’originaria Scuola di San Marco riportava al 1260, alla Scuola dei Battuti, che aveva come sede la chiesa antichissima, oggi scomparsa, della Santa Croce, ubicata pressappoco negli attuali Giardini Papadopoli, a pochi passi dall’odierno Piazzale Roma, il terminal automobilistico veneziano. Assunto il nome dell’Evangelista, la Scuola ottenne dai Domenicani la facoltà di erigere la nuova sede, proprio di fianco al convento.
Basato sul progetto di Matteo e Stefano Bon, celebri architetti dell’epoca, l’edificio prese forma in poco tempo, ma il 31 marzo 1485 un furibondo incendio lo distrusse quasi del tutto. Le cronache del periodo riportarono che l’origine della tragedia fosse da imputare alle candele dell’altare principale della Sala Capitolare, lasciate accidentalmente accese. Per nulla sconfortati dal disastro, i sodali si rimboccarono le maniche e aprirono per bene i loro portafogli. La nuova sede fu ricostruita in pochissimo tempo. La sua facciata divenne un bailamme di marmi pregiati e superbe sculture, un favoloso biglietto da visita della Scuola, che non badò alle spese.
Sull’architrave del portone sono presenti dei graffiti, lacerti di un tempo che fu. Alcuni di questi si limitano a dei semplici schizzi di nessuna importanza o frasi d’incerta grafia; altri raffigurano dei disegni, ricordi di qualcuno che lasciò il cuore sulle onde di chissà quale mare. A proposito di cuore. Tra i graffiti ve ne uno, che dovrebbe essere una testimonianza di un atto efferato fatto di sangue, avvenuto agli inizi del XVI secolo, compiuto da un ragazzo che di buon cuore ne aveva decisamente poco…
La storia, quella che si raccontava tra le calli o nelle osterie, tra un’ombra e l’altra, portava avanti il ricordo di uno scalpellino di Nome Francesco Pizzigani, Cesco per gli amici, che aveva perso ogni suo bene nel vano tentativo di salvare sua moglie da un brutto male. Cesco trascorreva ora tutte le sue giornate dinanzi all’ingresso della Scuola, sperando di trovare qualche anima pia che gli facesse la carità. Un giorno, i suoi occhi furono testimoni di un evento a dir poco raccapricciante. Là vicino, abitava una povera ma onesta donna, che anni addietro aveva messo al mondo un figlio con un mercante levantino, di casa nell’isola della Giudecca. Il bimbo crebbe con il padre e, divenendo grande, assunse tutti i suoi costumi, tanto che aveva preso l’abitudine di vestirsi alla turca. Ogni tanto faceva visita alla madre, ma non erano baci ed abbracci. Scaricava sulla donna tutta la rabbia e la frustrazione, che albergavano in lui. La incolpava di aver dato alla luce una creatura metà levantina e metà veneziana, sdegnata da ambedue le genti. Nel corso dell’ennesima e violenta lite, il giovane prese un coltello e trafisse la madre senza pietà alcuna. Folle di rabbia, gli strappò il cuore ancora pulsante e corse fuori, raggiungendo il ponte del Cavallo, così chiamato per la vicinanza con una statua equestre. Quando fu sopra, mise un piede in fallo e cadde a terra. Una voce si fece sentire. Il ragazzo la riconobbe subito. Era quella di sua madre, proveniva dal cuore, che gli chiedeva se si fosse fatto male, cadendo…Si sa, cuore di mamma…Attanagliato dal rimorso o, forse, dalla paura, il giovane assassino corse a perdifiato verso la laguna, dove sparì annegando. Il terribile fatto di cronaca nera fu impressa nella pietra della Scuola, dove si vede un giovane con turbante alla testa e un cuore nella mano sinistra.
L’attuale edificio con la sua strepitosa facciata sono il frutto della sapiente direzione di Pietro Lombardo, che, in compagnia dei figli Antonio e Tullio, intrapresero la ricostruzione, finendola nel 1490; quando nel 1494 fu chiamato l’architetto bergamasco Mauro Codussi per concludere il lavoro della facciata, realizzandovi anche lo spettacolare scalone interno.
Il portale è affiancato da colonne con plinti ed è sormontato da una lunetta, che racchiude l’altorilievo raffigurante San Marco tra i confratelli, scolpito da Giovanni Bon nel 1445. Al di sopra, la Carità, attribuita sempre al Bon, coronamento del protiro. Nella parte inferiore trovano posto due leoni marciani e la rappresentazione di due episodi della biografia di San Marco: Il Battesimo di Sant’Aniano e la Guarigione di Sant’Aniano. Uno dei due leoni è una copia ottocentesca, che sostituisce l’originale andato in mille pezzi durante l’occupazione francese.
L’interno si apre con il solenne andito, caratterizzato da dieci piedistalli con colonne in doppia fila e dai portali, che conducono allo scalone di accesso della Sala del Capitolo. La quale conteneva i cicli delle Storie di San Marco, ora conservati in parte alle Gallerie dell’Accademia. Tra questi I Santi Marco, Giorgio e Nicola salvano Venezia dalla tempesta di Jacopo Palma il Vecchio; La guarigione di Aniano e il Battesimo di Aniano di Giovanni Mansueti; la predica di San Marco di Gentile Bellini; il martirio di San Marco di Giovanni Bellini; e il Pescatore consegna l’anello al Doge di Paris Bordon.
Al primo piano, nella Sala Capitolare e nella Sala dell’Albergo, è ancora possibile ammirare il soffitto intagliato e dorato, eseguito nel 1495 da Pietro e Biagio da Faenza, mentre le pareti sono decorate da tele, vere e proprie superstiti del saccheggio napoleonico e austriaco. Tra queste vi è il Cristo in gloria con San Marco, Pietro e Paolo di Palma il Giovane o le quattro di Domenico Tintoretto, che raffigurano episodi della vita dell’Evangelista.
Il fondo librario qui custodito è importante, quasi un unicum e deriva in parte dalla biblioteca del Convento domenicano. Vi sono raccolti oltre ottomila volumi, molti dei quali rarissimi, come il volume di Girolamo Fracastoro, il padre della moderna patologia, il Variarum Lectionem di Mercuriale; oppure il canone di Avicenna.
Il Campo sul quale si affacciano la Scuola Granda e la chiesa è un grande libro aperto, e non solo di storia dell’architettura o dell’arte. Ogni singolo monumento rappresenta un capitolo denso di avvenimenti di vita vissuta, sconosciuta ai più, come la pavimentazione del 1682 della piazzetta; oppure la collocazione della vera da pozzo, proveniente da Palazzo Corner di San Maurizio; ancora, il bassorilievo di Giusto le Court, raffigurante l’Annunciazione, collocato sopra la porta di un’abitazione. Nel Campo, di fronte alla Scuola Granda si erge maestoso il monumento equestre del capitano di ventura bergamasco Bartolomeo Colleoni. La statua venne commissionata allo scultore e pittore Andrea Cioni detto il Verrocchio, che realizzò il modello a Firenze e lo portò a Venezia. Lo scultore fiorentino, maestro di Leonardo da Vinci, vi lavorò fino alla fine, nel 1488, e fu terminato da Alessandro Leopardi. Alcuni studiosi avrebbero rinvenuto nella statua i tratti distintivi della mano di Leonardo, analoghi alla celebre scultura del Condottiero. La storia del monumento equestre ha del curioso. Morto nel suo castello di Malpaga nel 1475, il Colleoni lasciò parte dei suoi averi, circa centomila zecchini, oltre gli arretrati degli stipendi arretrati alla Serenissima, affinché li adoperasse per continuare la guerra contro i Turchi. Unica condizione, apparentemente facile da esaudire, era quella di avere una statua in Piazza San Marco. Il 30 luglio 1479, il Senato decretò di realizzare un monumento in onore, ma di erigerla davanti alla Scuola Granda di San Marco, aggirando così il problema delle leggi veneziane che non permettevano il culto della personalità, peraltro in bella vista in uno dei posti più simbolici della città. E così, alla fine, la statua fu innalzata di fronte alla Scuola, rispettando di fatto le disposizioni testamentarie.
Volendo appagarci di successive chicche, basta imboccare il Rio dei mendicanti, che porta alle Fondamenta Nove. Erette nel 1546, le Fondamenta dovettero subire un profondo rimaneggiamento, in seguito alla terribile tempesta del 20 dicembre 1766. Fin dalla loro prima realizzazione, divennero meta per la popolazione, per le presunte qualità dei fattori ambientali climatici, quale la salubrità dell’aria, dovuta ai venti del nord e nord est. La tradizione popolare ha sempre rimarcato il fatto che nessuna pestilenza vi ha messo piede. Non fu un caso se qui venne costruito un complesso assistenziale: San Lazzaro dei Mendicanti. Nel corso dell’epoca medioevale, i malati di lebbra della città erano curati presso la parrocchia di San Trovaso, poi si optò di condurli nell’isola di San Lazzaro, oggi isola di San Lazzaro degli Armeni, sede di un monastero, casa madre dell’Ordine Mechitarista, per giungere al Sedicesimo secolo con la fondazione dell’ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti, “vicino alle chiese delli R.di Padri di S. Giovanni et Paolo, et San Fran.co et alle piazze di S. Marco, et di Rialto ove in tutti i tempi vi è grande concorso di popolo”, ovvero dietro al convento domenicano e alla Scuola Grande di San Marco, sulle fondazioni di una precedente struttura assistenziale interamente in legno. Preso a modello l’ospedale dell’Opera dei Poveri Mendicanti di Bologna, anche la più tarda struttura veneziana prese a fronteggiare il problema della mendicità della città, ovvero di garantire in linea di massima l’assistenza e il benessere di “tutti quegli abitanti indigenti della città di entrambi i sessi e di ogni età, e non sono in grado di guadagnare abbastanza per sostenere se stessi, sia a causa della loro giovane età, o perché non conoscono commercio, o a causa di incapacità personale, o per vecchiaia e decrepitezza” (Capitoli 1619). A sostegno di un’azione più incisiva, l’Ospedale assunse anche una funzione educativa, con il fine di rieducare gli ospiti con l’insegnare un mestiere e, nel caso delle ragazze, si provvide ad impartire un’educazione musicale di tutto rispetto, tanto da far salire agli onori l’Ospedale per i concerti diretti dai migliori maestri dell’epoca.
Dopo alterne vicende, nel 1807 l’ospedale assunse la designazione di ospedale militare con gli edifici della Scuola Grande e, nel 1819, divenne parte integrante dell’ospedale civile.
La chiesa, affacciata sul Rio, si mostra con una navata unica con un presbiterio quadrato. Oltre all’altare maggiore, altri quattro altari sono collocati nelle mura laterali in piccole cappelle. Caratteristici i cori, strisce rettangolari disposte nelle campate. Da qui, gli ospiti potevano assistere alla messa, con la consueta separazione tra uomini e donne. La cantoria si presente pensile e con inferriate, grazie alle quali non era possibile scorgere il viso delle giovani donne intente al bel canto. Il vestibolo lo trovo sconcertante nella sua semplicità apparente. In una prima occhiata appare nudo, semplice, per quanto vi siano alcuni monumenti, che lo abbelliscono, ma in effetti è una soluzione che appare senza senso. Poi, entrando nell’aula, tutto diventa più chiaro. La facciata e la controfacciata, tutt’uno con il monumento funebre di Alvise Mocenigo, risultano un filtro, efficace a bloccare i rumori provenienti dall’esterno e che potrebbero disturbare lo svolgersi dei concerti o delle messe cantate.
Notevole il patrimonio pittorico. Si ricordano il “Cristo in croce, la Vergine e San Giovanni”, di Paolo Veronese; l’”Annunciazione” di Giovanni Porta; il “Sant’Elena in adorazione davanti alla Croce”, unica opera del Guercino a Venezia; oppure il “Sant’Orsola e le undicimila vergini” di Jacopo Tintoretto.
In questo Campo e nelle sue immediate vicinanze, sembra attecchire bene l’idea secondo la quale un albero cresce bene e dona abbondanza di frutti se le radici sono ben immerse nel terreno. Qui, la vita non è un semplice appagamento fine a sé stesso delle bellezze circostanti, ma è un incessante presentarsi di segni di vitalità che mantengono in vita la memoria della propria storia, quella vera, quella di ogni giorno da ogni singolo veneziano e turista. Un vissuto e un vivere, nei quali il veneziano, e non solo, ha prodotto cultura, contrassegnato le attività e innalzato monumenti d’arte di rara bellezza.
Tra le innumerevoli meraviglie che il Trentino-Alto Adige preserva gelosamente, la Valle di Braies è senza dubbio una di esse. Il suo lago rappresenta una delle mete più gettonate del turismo, anche di quello non propriamente sostenibile. Non sorprende affatto se la località sia stata scelta come palcoscenico naturale per mandare in scena una fortunata serie televisiva di successo, dando ragione alla tradizione ladina, che vi ha ambientato parte delle sue credenze secolari orali.
La Valle è tra le più belle della Pusteria e si snoda in un paesaggio pittoresco tra boschi di abeti rossi, larici e cirmolo, spezzettati da pascoli e altopiani dalle diverse tonalità del verde smeraldo, sfumature cromatiche con le quali anche il lago si presenta ai suoi ospiti, variando secondo la stagione. La flora e la fauna piuttosto ricca hanno contribuito alla fondazione del Parco di Sennes-Braies-Fanes, il cui nucleo prese vita nel 1980, proprio nelle adiacenze del lago di Braies. Tra i simboli del parco vi è la marmotta, il roditore simbolo dell’antica cultura dei Fanes, il popolo delle marmotte.
Ogni anno, durante la notte di luna crescente, una barca dal fasciame nero come la pece ondeggia silenziosamente nelle acque del lago, dopo essere uscita dal “Sas dla Porta” della Croda del Becco, una montagna del gruppo della Croda Rossa d’Ampezzo. A bordo, la bella principessa Lujanta e sua madre, la regina cieca del leggendario popolo dei Fanes, aspettano un segno promesso da lungo tempo, che permetterà ai propri sudditi di “uscire dal tenebroso rifugio e tornare a vivere alla luce del sole, perché in quel tempo non ci saranno più guerre, né uccisioni, né rancori, e come già in un lontanissimo passato gli uomini saranno fratelli, legati da un vincolo d’amore” (Karl Felix Wolff, Le Leggende delle Dolomiti, p.89).
Ancora, l’immaginario popolare, che molto spesso traeva vita dalle lunghe notti d’inverno di fronte ai “larin”, raccontava dei Salvan, i Nani che abitavano i boschi e le caverne. I piccoli uomini, esseri numinosi alti poco più di due palmi e dotati di poteri magici, custodivano l’oro delle montagne. Degli allevatori dall’animo smanioso di ricchezze presero a raccoglierlo con avidità, provocando di fatto la loro vendetta, che non si fece aspettare molto. Ed ecco che fecero sgorgare delle sorgenti d’acqua cristallina, che nascosero per sempre le vene del metallo prezioso, dando vita al lago di Braies.
La vallata, ponte naturale che pone in contatto con tutti i quadranti della Rosa dei Venti, fu frequentata dai cacciatori preistorici e vide il passaggio di molti attori della storia. Si trovò ad essere anche oggetto di contesa per i potentati locali. Gli Annali del Sud Tirolo, ad esempio, rievocano l’aspro conflitto tra Verena von Stuben, badessa di Castelbadia, e Nicola Cusano, vescovo principe di Bressanone. La superiora del monastero femminile, che non ne voleva sapere delle ingerenze del Cusano, gli scatenò addosso le sue milizie e quelle dell’arciduca Sigismondo. Soppresso il convento nel 1785 da Giuseppe II, figlio di Maria Teresa d’Austria, il lago passò alle dipendenze del vescovo di Bressanone, mentre gli alpeggi passarono nelle disponibilità dei contadini di San Vito. Sul finire del XIX secolo, Emma Hellenstainer, “pioniera del turismo delle Alpi in Europa”, insieme ai figli e nipoti lasciarono il segno del genio imprenditoriale che li contraddistingueva, costruendovi l’albergo sulle rive del lago, sul quale ancora oggi vi si sporgono le sue caratteristiche facciate.
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, Braies si trovò suo malgrado a partecipare agli scampoli della fase finale delle attività belliche, che interessarono il versante alpino. Il 25 luglio 1943 Mussolini veniva deposto dal Gran Consiglio del Fascismo e, il giorno successivo, arrestato in seguito all’udienza del re. Il Governo fu affidato al Maresciallo d’Italia Badoglio ed Hitler diede il via all’operazione denominata “Alarico”, che prevedeva il disarmo dell’Esercito Italiano, l’occupazione delle posizioni sensibili, quali i valichi montani e i porti, e la definizione del territorio del Regno come zona operazioni, con il conseguente trasferimento dell’esercizio dei poteri civili ai comandanti militari tedeschi. Tuttavia, il Piano “Alarico” fu superato dal susseguirsi frenetico degli avvenimenti, il cui punto saliente era l’avanzata a tratti inarrestabile delle truppe alleate in Italia. Nella notte tra l’8 e il 9 settembre, l’Alto Comando tedesco mise in strada l’operazione “Achse”, in seguito all’entrata in vigore dell’armistizio di Cassabile, firmato con gli anglo americani il 3 settembre. Il messaggio, letto da Pietro Badoglio alle ore 19:42 al microfono dell’EIAR, trovò immediata risposta con l’”Operationszone Alpenvorland”, l’occupazione delle province di Bolzano, Trento e Belluno, che costituiva una nuova circoscrizione con il Tirolo, sottoposta alla diretta amministrazione militare tedesca e tolta di fatto al controllo della Repubblica Sociale Italiana, per quanto vi appartenesse ancora, almeno del punto di vista della ufficialità.
Nello stesso momento venne istituita la Zona d’operazioni Litorale adriatico, “Operationszone Adriatisches Küstenland”, che comprendeva le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana. Anche questo nuovo distretto fu sottoposto alla diretta amministrazione militare tedesca e sottratto anch’esso al controllo della Rsi.
L“Alpenvorland”, il cui governo venne affidato a Franz Hofer in qualità di Gauleiter, Commissario (Commissario supremo) del Tirolo, tra le ragioni politiche vi era la preminente esigenza di carattere militare. Memori di quanto accaduto nel corso del Primo conflitto mondiale e consci delle nuove tecnologie belliche, si era progettato nell’area alpina un complesso fortificato, dove poter organizzare una resistenza ad oltranza nei confronti delle truppe anglo americane. Tra i maggiori promotori della “fortezza alpina” vi era Ernst Kaltenbrunner, SS-Obergruppenfuhrer.
Quest’ultimo, nominato a fine gennaio del 1943 capo del RSHA, l’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich, presentò la proposta ad Heinrich Himmler, Reichsführer delle Schutzstaffel e comandante della polizia, nonché delle forze di sicurezza del Terzo Reich, dove si affermava la soluzione dell’affollamento del Campo di Theresienstadt, a circa 60 chilometri da Praga,
tramite il trasferimento forzato di oltre cinquemila ebrei di età avanzata al Campo di Auschwitz Birkenau in Polonia. Nello stesso documento Kaltenbrunner ricordava, inoltre, che i prigionieri del Campo erano stati suddivisi in gruppi in base all’età, alla validità al lavoro e, infine, all’utilità al Reich stesso.
Himmler aveva fatto costruire un bunker di cemento armato nel Campo di concentramento di Flossenburg. Al suo interno vi erano stati relegati e tenuti in vita i prigionieri importanti. Nella scacchiera del gerarca nazista si trattava di mossa, che vedeva nei prigionieri una possibile merce di scambio. Inoltre, negli ultimi mesi di guerra si valutò di usare i prigionieri per portare gli Alleati o le Organizzazioni non governative del Congresso Ebraico Mondiale al tavolo delle trattative, come avvenne con l’episodio del convoglio ferroviario di Kastner, grazie al quale nel giugno del 1944, 1864 ebrei ungheresi del Campo di Sterminio di Bergen Belsen lasciarono per sempre gli orrori per trovare la salvezza in Svizzera.
Hitler e i suoi ritenevano imminente la rottura delle alleanze in gioco. Presto i tedeschi avrebbero combattuto a fianco dei suoi ex nemici contro l’Armata Rossa. A favore di questa tesi vi era anche la telefonata intercettata dal controspionaggio tedesco nel 1944 tra Stalin e Tito. La conversazione fra i due verteva sull’occupazione dell’Italia del nord da parte delle armate sovietiche, come uno degli obiettivi militari primari sovietici, volendo con ciò anticipare l’avanzata anglo americana (Theil, Kampf um Italien, p.274) (Kerstin von Lingen, Verschwörung des Schweigens. Kapitulation und Immunitätsversprechen am Beispiel Karl Wolff,; Ead., Conspiracy of Silence. How the Old boys of American Intelligence shielded SS-General Karl Wolff from prosecution. In: Holocaust and Genocide Studies 22 (2008), 1, pp. 74–109).
A sua volta, i tedeschi ritenevano di rivoluzionare le sorti del conflitto con le “Wunderwaffe”, le armi meraviglia, o “Vergeltungswaffe”, armi della vendetta, come l’aviogetto a reazione Messersschmitt Me 262, le cui qualità furono riconosciute dagli stessi statunitensi
, o il bombardiere avveniristico Ar 234, che sfuggiva a qualsiasi caccia alleato.
Com’era prevedibile, i tentativi compiuti da Himmler e da Kaltenbrunner di avviare delle trattative segrete con gli Alleati, in particolare con gli americani dell’Oss non trovarono alcuna risposta. Allen W. Dulles, il capo del servizio segreto statunitense a Berna,
accettò contro tutte le opinioni dei colleghi e dei suoi superiori, come unico interlocutore Karl Wolft, generale di corpo d’Armata delle SS e generale delle Waffen SS e Governatore in Italia.
La trattativa prevedeva la resa incondizionata delle truppe tedesche dello scacchiere sud-ovest, in cambio dell’impunità per Wolff, il quale, invece, era stato incluso nelle liste dei principali criminali di guerra, per il ruolo avuto nel corso della guerra. Ma il 23 agosto 1945, Dulles si trovò a scrivere al collega, il generale William Donovan, ipotizzando che “Wolff sarà incluso in qualche lista per processi contro criminali di guerra. Propongo, invece, che egli non venga incluso nel primo gruppo, in modo da impedire che faccia uso per difendersi della sua versione di Sunrise”, il piano della resa tedesca, che doveva rimanere riservato (Kerstin von Lingen, Verschwörung des Schweigens. Kapitulation und Immunitätsversprechen am Beispiel Karl Wolff,; Ead., Conspiracy of Silence. How the Old boys of American Intelligence shielded SS-General Karl Wolff from prosecution. In: Holocaust and Genocide Studies 22 (2008), 1, pp. 74–109).
A questi ostaggi si aggiunsero le grandi personalità, provenienti dai paesi caduti sotto il giogo nazista. Tra questi vi era l’ex Primo Ministro francese Leon Blum, l’ex Cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg o l’ex Primo Ministro Ungherese Miklos von Kallày. Un altro gruppo ancora era costituito dai cosiddetti “Sippenhaftlinge”, ovvero i famigliari e parenti degli oppositori del regime, come i consanguinei del colonnello Claus Schenk von Stauffenberg
, uno degli autori dell’attentato alla vita del Fuhrer del 20 luglio 1944; come il borgomastro di Lipsia, Carl Goerdeler, o i parenti stretti del principe di Baviera.
Nell’aprile del 1945, i prigionieri eccellenti furono prelevati, per trasferirli, almeno nelle intenzioni originarie, in Baviera. Gli ufficiali delle SS Ernst Bader ed Edgar Stiller furono incaricati di gestire l’intera operazione, assieme a truppe SS e SD (Servizio di Sicurezza), armati di tutto punto. Nei giorni 17, 24 e 26 aprile 1945 gli ostaggi partirono da Buchenwald, Flossenburg e da Mauthausen con direzione il Campo di Dachau.
Le consegne e le disposizioni di servizio in caso di cattura erano chiare. Dovevano imbottire i prigionieri di esplosivo e farli detonare. Nessuno doveva sopravvivere.
Nel corso del trasferimento si incrociarono con i prigionieri delle “Marce della Morte”, evacuati dai Campi dell’Est, dopo i tentativi di occultare quanto di mostruoso vi era accaduto dentro. Joseph Walk ne riporta la testimonianza in un suo volume:
“Su tutte le strade e i sentieri dell’Alta Slesia a ovest dell’Oder incontravo adesso colonne di prigionieri, che arrancavano nella neve alta. Non avevano cibo. La maggior parte dei sottoufficiali a capo di queste incespicanti colonne di cadaveri non aveva la minima idea di dove avrebbero dovuto dirigersi. Sapevano solo che la loro destinazione finale era Groß-Rosen…Il tragitto seguito da queste miserabili colonne era facile da ripercorrere, visto che ogni poche centinaia di iarde giacevano i corpi di prigionieri che erano stramazzati a terra o cui era stato sparato…Vidi carri da carbone colmi di cadaveri congelati, interi treni di prigionieri che erano stati deviati su binari morti e lasciati là senza cibo né riparo” (Das Sonderrecht für die Iuden im NS-Staat. Eine Sammlung der gesetzlichen Massnahmen und Richtlinien, Inhalt und Bedeutung, Heidelberg 1981, p.305).
Il Campo di Dachau, a poca distanza da Monaco di Baviera e collocato originariamente sull’area di una fabbrica di munizione e polvere da sparo non più in uso, era stato posto in quarantena, a causa dell’imperversare di epidemie, in particolare di tifo. Gli ostaggi furono caricati su camion e vecchi autobus e si mossero alla volta dell’Alto Adige. Oltrepassato il valico alpino del Brennero, raggiunsero il 28 aprile Villabassa (Niederdorf), in Alta Pusteria, nella provincia autonoma di Bolzano. Nella piazzetta antistante la stazione ferroviaria i prigionieri furono fatti scendere e condotti al centro del paese, dove la gente del posto solidarizzò con loro, mettendo in serie difficoltà i loro carcerieri, che pretendevano di tenerli sotto tiro costantemente. Quando alla notte la popolazione si offrì di ospitarli nelle locande, nella canonica e nelle sale comunali, le SS decisero, come extrema ratio, di rinchiudere gli ostaggi dentro gli autobus e di farli saltare in aria, dopo aver raggiunto luoghi isolati, dove nessuno avrebbe potuto né vedere né sentire. Uno degli ostaggi, il generale italiano Sante Garibaldi, discendente dell’Eroe dei Due Mondi, trovò la circostanza perfetta per nascondersi all’interno di un casello ferroviario, dove riusciva comunicare con una cellula di partigiani, informandoli che il convoglio si sarebbe mosso presto alla volta di un albergo a Braies, al momento occupato dagli Stati maggiori di tre generali della Wehrmacht.
La domenica del 29 aprile, l’ingegnere Anton Ducia dell’Alto Commissariato di Bolzano
riuscì a far traslocare i tre ufficiali e, in secondo luogo, avere un colloquio con il generale di Comando d’Armata, Richard von Vietinghoff, che stava già collaborando con Wolff per la resa tedesca in Italia.
L’oggetto della conversazione fu la sorte dei prigionieri eccellenti. L’alto ufficiale tedesco ordinò al capitano Wichard von Alvensleben di scendere a Villabassa con i suoi uomini e prendere in consegna gli ostaggi dalle SS. A scanso di equivoci, fece convergere sulla zona 150 granatieri, che segnarono la differenza nel precedente status quo. Le SS tentarono un colpo di mano, ma non sortì l’effetto sperato. Anzi, vedendo ormai sfumata ogni possibilità di riprendersi gli ostaggi, si allontanarono a bordo di mezzi meccanici.
Il Capitano von Alvennsleben stabilì di accompagnare i prigionieri sulle rive del lago di Braies, all’hotel “Pragser Wildsee”, con l’esclusione degli ostaggi italiani, che rimasero a Villabassa, ospiti della Casa Wassermann, un edificio del XV secolo, ancora oggi visibile al centro di Villabassa.
In quelle ore si era abbattuta una fitta nevicata che vanificò la salita con i mezzi a motore. I prigionieri intrapresero una faticosa salita notturna, fino a quando raggiunsero la quota 1496. Qui, li attendeva la padrona dell’hotel e il suo staff, che si fecero in quattro per aiutarli. Qui, poterono finalmente ristorarsi e formare un comitato di autogoverno con a capo il capitano inglese Payne Best, come vice il colonnello tedesco Bogislav von Bonin e come garante il capitano di fregata Franz Liedig.
Al primo piano trovarono collocazione nelle comode stanze i Thyssen, i Gordeler, gli Stauffenberger; al secondo piano la famiglia Schuschnigg, Hjalmar Schacht, il pastore Niemoller e i cinque generali greci. Al piano successivo i francesi, gli inglesi ungheresi, olandesi e altri ancora.
Caso a parte il russo Vassili Kokorin, nipote di Molotov. L’uomo, aiutato da un gruppo di partigiani italiani, lasciò Braies, anche se morì poco più di un mese dopo, forse perché a conoscenza di qualcosa che doveva rimanere un segreto.
La situazione si era evoluta, precipitando nel caos più assoluto. Il Comando della Gestapo di Klagenfurt ricevette l’ordine di recarsi a Villabassa e prendere in consegna i prigionieri. Se necessario, erano autorizzati a uccidere tutti gli ostaggi. L’importante era che non cadessero in mano degli anglo americani. Per fortuna, l’ordine rimase solo nella carta. La mattina del 4 maggio 1945 le avanguardie della 7a Divisione statunitense fecero il loro arrivo e presero in carico gli ostaggi. Il grosso delle truppe statunitense giunse il giorno successivo, assieme alle formazioni partigiane bellunesi. Dopo essere stati disarmati, i soldati della Wermacht furono fatti prigionieri e trasferiti a Monguelfo. Nei giorni successivi parte di loro fu trasferita prima a Napoli e, infine, a Capri, per poi essere trasferiti nuovamente, con direzione la Germania. L’SS Edgar Stiller riuscì a raggiungere il territorio austriaco, ma solo dopo pochi giorni fu preso in custodia dagli americani.
Lista dei prigionieri
Austria
Konrad Praxmarer, scrittore
Richard Schmitz, ex borgomastro di Vienna
Kurt Schuschnigg, cancelliere d’Austria
Vera Schuschnigg, moglie di Kurt Schuschnigg, e la loro figlia Maria Dolores Elisabeth.
Danimarca
Hans Frederik Hansen, agente danese “Frederiksen” del SOE
Adolf Theodor Larsen, agente danese “Andy” del SOE
Jørgen Lønborg Friis Mogensen, vice-console
Hans Lunding, capitano, capo dei servizi segreti danesi
Max J. Mikkelsen, capitano della marina mercantile
Knud E. Pedersen, capitano della marina mercantile
Francia
Jeanne Léon Blum, moglie di Léon Blum
Léon Blum, ex primo ministro di Francia
principe Saverio di Borbone-Parma
Armand Mottet
Gabriel Piguet, vescovo di Clermont-Ferrand
Raymond Van Wymeersch, capitano della Forces aériennes françaises libres
Germania
Bogislaw von Bonin, ufficiale della Wehrmacht
Baron Fritz Cerrini, segretario privato del principe Federico Leopoldo di Prussia
Friedrich Engelke, commerciante
generale Alexander von Falkenhausen, ex comandante militare in Belgio e Francia
Wilhelm von Flügge, direttore dell’IG Farben
principe Federico Leopoldo di Prussia
generale Franz Halder, ex capo di stato maggiore
Gertrud Halder, moglie di Franz Halder
Anton Hamm, cappellano
Erich Heberlein, diplomatico
Margot Heberlein, moglie del Dr. Erich Heberlein
Horst Hoepner, commerciante, fratello del generale Erich Hoepner
Joseph Joos, giornalista e politico (Partito di Centro Tedesco Zentrum)
Karl Kunkel, cappellano
Franz Maria Liedig, ufficiale della Kriegsmarine, (Abwehr)
Josef Müller, ufficiale (Abwehr)
Johann Neuhäusler, canonico
Martin Niemöller, pastore
Heidel Nowakowski
Horst von Petersdorff, ufficiale della Wehrmacht
principe Filippo d’Assia, diplomatico, genero del re d’Italia
Hermann Pünder, ufficiale
Hjalmar Schacht, ex presidente della Reichsbank e ministro dell’economia
Fabian von Schlabrendorff, ufficiale d’ordinanza del maggiore generale Henning von Tresckow
Georg Thomas, generale
Amélie Thyssen, moglie di Fritz Thyssen
Fritz Thyssen, imprenditore
Wilhelm Visintainer, cuoco, prigioniero a Dachau
Paul Wauer, barbiere, prigioniero a Dachau
Grecia
Konstantinos Bakopoulos, luogotenente generale
Panagiotis Dedes, luogotenente generale
Vassilis Dimitrion, soldato
Nikolaos Grivas, caporale
Georgios Kosmas, luogotenente generale
Alexandros Papagos, luogotenente generale, comandante in capo dell’Esercito greco
Ioannis Pitsikas, luogotenente generale
Italia
Amechi, funzionario pubblico
Eugenio Apollonio, vice-capo della Polizia della Repubblica Sociale
Mario Badoglio, figlio del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio
Burtoli, funzionario pubblico
Davide Ferrero, colonnello
Sante Garibaldi, generale
Tullio Tamburini, Capo della Polizia della Repubblica Sociale
Jugoslavia
Hinko Dragić, tenente colonnello
Novak D. Popović, capo dall’amministrazione postale
Dimitrije Tomalevski, giornalista
Lettonia
Gustavs Celmiņš, capitano della riserva dell’Esercito lettone
Norvegia
Arne Dæhle, capitano della Reale Marina Norvegese
Paesi Bassi
Johannes J. C. van Dijk, ministro della difesa
Polonia
Jan Iżycki, ufficiale pilota della RAF
Stanisław Jensen, ufficiale pilota della RAF
conte Aleksander Zamoyski, maggiore
Regno Unito
Sigismund Payne Best, capitano del Secret Intelligence Service
Jack Churchill, tenente colonnello dei Commandos
Peter Churchill, capitano del Special Operations Executive
Thomas J. Cushing, staff sergeant
Harry M. A. Day, comandante di stormo della RAF
Sydney Dowse, ufficiale pilota della RAF
Hugh M. Falconer, capo squadrone della RAF, Special Operations Executive
Wadim Greenewich, funzionario del Foreign Office
Bertram James, ufficiale pilota della RAF
John McGrath, tenente colonnello
Patrick O’Brien, soldato
John Spence, agricoltore
Richard Henry Stevens, tenente colonnello
Andrew Walsh, tecnico della RAF
Repubblica Ceca
Josef Burda, commerciante
Jan Rys-Rozsévač, giornalista
Slovacchia
Imrich Karvaš, governatore della Banca Nazionale Slovacca
Ján Stanek, maggiore
Svezia
Carl S. Edquist, direttore
Ungheria
Aleksander Ginzery, colonnello
Josef Hatz, maggiore
Samuel Hatz, insegnante, padre di Josef Hatz
Andreas Hlatky, segretario di stato ungherese
Miklós Horthy Jr., diplomatico, figlio di Miklós Horthy
Géza Igmándy-Hegyessy, generale
Miklós Kállay, ex primo ministro d’Ungheria
Julius Király, colonnello
Desiderius Ónody, segretario di Horthy jr.
Péter Schell, ministro degli interni ungherese
Unione Sovietica
Ivan Georgievič Bessonov, generale
Victor Brodnikov, tenente colonnello
Fëdor Ceredilin, soldato
Vassilj Vassil’evič Kokorin, sottotenente
Pëtr Privalov, maggiore generale
Nikolaj Ručenko, sottotenente
Familiari dei golpisti
Fey von Hassell Pirzio Biroli, figlia di Ulrich von Hassell
Annelise Gisevius, sorella di Hans-Bernd Gisevius
Anneliese Goerdeler, moglie di Carl Goerdeler
Benigna Goerdeler, figlia di Goerdeler
Gustav Goerdeler, fratello di Goerdeler
Marianne Goerdeler, figlia di Anneliese e Carl Goerdeler
Irma Goerdeler, moglie di Ulrich Goerdeler, nuora di Anneliese e Carl Goerdeler
Jutta Goerdeler, cugina di Benigna Goerdeler
Ulrich Goerdeler, figlio di Anneliese e Carl Goerdeler
Käte Gudzent
Hildur von Hammerstein, figlia di Maria e Kurt von Hammerstein-Equord
Maria von Hammerstein-Equord, moglie di Kurt von Hammerstein-Equord
Anna-Luise von Hofacker, figlia di Cäsar von Hofacker
Eberhard von Hofacker, figlio di Cäsar von Hofacker
Ilse Lotte von Hofacker, moglie di Cäsar von Hofacker
Elisabeth Kaiser, figlia di Therese Kaiser
Therese Kaiser
Arthur Kuhn, avvocato
Lini Lindemann, moglie del generale Fritz Lindemann
Josef Mohr, fratello di Therese Kaiser
Käthe Mohr, moglie di Josef Mohr
Gisela Gräfin von Plettenberg-Lenhausen, figlia di Walther Graf von Plettenberg-Lenhausen
Walther Graf von Plettenberg-Lenhausen, commerciante
Alexander Schenk Graf von Stauffenberg, fratello di Claus Schenk Graf von Stauffenberg
Alexandra Schenk Gräfin von Stauffenberg, sorella di Markwart Schenk Graf von Stauffenberg
Clemens jr. Schenk Graf von Stauffenberg, figlio di Markwart Schenk Graf von Stauffenberg
Elisabeth Schenk Gräfin von Stauffenberg, moglie di Clemens Schenk Graf von Stauffenberg
Inèz Schenk Gräfin von Stauffenberg, figlia di Markwart Schenk Graf von Stauffenberg
Maria Schenk Gräfin von Stauffenberg, moglie di Berthold Schenk Graf von Stauffenberg
Marie-Gabriele Schenk Gräfin von Stauffenberg, figlia di Elisabeth Schenk Gräfin von Stauffenberg e Clemens Schenk Graf von Stauffenberg
Markwart Schenk Graf von Stauffenberg senior, colonnello
Otto Philipp Schenk Graf von Stauffenberg, figlio di Elisabeth Schenk Gräfin von Stauffenberg e Clemens Schenk Graf von Stauffenberg senior
Hans-Dietrich Schröder, figlio di Ingeborg Schröder
Harring Schröder, figlio di Ingeborg Schröder
Ingeborg Schröder
Sybille-Maria Schröder, figlia di Ingeborg Schröder
Isa Vermehren, commediografa, sorella di Erich Vermehren.
Braies provoca al viaggiatore uno sconvolgimento emotivo, che sembra coinvolgere il Sublime e il Bello di memoria “burkiana” dello scrittore e filosofo Edmund Burke. Basta una semplice passeggiata perché l’escursionista si ritrovi in un mondo, che lo appaga in ogni suo momento, facendogli perdere il senso del tempo e della realtà, con il rischio che, prima o poi, qualcuno troverà la strada per renderlo un semplice parco gioco ad uso e consumo del turismo sfrenato del mordi e fuggi.
Nella regione appenninica del Montefeltro, adagiato in un’altura della media Valle del Marecchia, a poco più di trenta chilometri da Rimini, si trova l’antico e suggestivo borgo di San Leo. A guardia dell’abitato e delle vallate circostanti la natura ha collocato una maestosa formazione rocciosa, dove si erge un celebre castello, avvinghiato con la pietra. Il territorio è caratterizzato da un alternarsi di verdi colline, campi coltivati ad arte, spuntoni di roccia sui quali si ergono abitati da favola, castelli e torri di guardia.
Questo paesaggio spettacolare ha cullato fin dalle epoche più antiche l’uomo. I ritrovamenti attestano una frequentazione dell’area risalente almeno all’età del Bronzo finale, con una continuità di frequentazione fino alla più recente epoca romana. Le origini dell’abitato vero e proprio sono solite essere ricondotte alla grande opera di evangelizzazione compiuta nel terzo secolo dopo Cristo in queste terre. Stando alla “Vita Sancti Marini”, testo agiografico anonimo del XII secolo, due scalpellini di fede cristiana, originari dell’isola d’Arbe, nella lontana Dalmazia settentrionale, giunsero a Rimini, attratti dall’opportunità di trovare lavoro per il rifacimento delle mura di Rimini; e per sfuggire alla persecuzione iniziata dall’imperatore Diocleziano contro i cristiani. Da qui, furono inviati per tre anni sul vicino Monte Titano per l’estrazione e la lavorazione della roccia. Anni dopo, uno dei due, san Leone, fu colto dal desiderio di condurre una vita solitaria, dedicandosi all’ascesi, alla preghiera e alla contemplazione. Si mosse alla volta del Monte Feliciano, conosciuto anche sotto il nome di “Mons Feretri”, per un supposto tempio consacrato a Giove Feretrio.
Qui, l’anacoreta tirò su alla bella e buona una cella e fece edificare una cappella, piccola cosa alla successiva pieve di epoca carolingia e ristrutturata in età romanica, dedicata all’Assunzione di Maria, la “Dormitio Virginis”. In breve, il santo convertì al cristianesimo gli abitanti dei paesi limitrofi mediante la predicazione del Vangelo, giungendo alla creazione della Diocesi di Montefeltro con lo stesso san Leo assunto a primo vescovo, benché l’istituzione ufficiale della circoscrizione vescovile fosse stata formalizzata ben più tardi, intorno al IX secolo. Morto su quel monte, lasciò in eredità il suo nome alla contrada e il suo culto si diffuse rapidamente, tanto che, stando alla tradizione popolare, il 14 febbraio 1016, l’imperatore Enrico II volle traslarne i resti mortali, che riposavano in un sarcofago di pietra, all’interno del duomo locale, innalzato dopo il VII secolo e dedicato al santo Leone.
Nel corso del viaggio, che aveva come destinazione la città di Spira in Germania, il corteo giunse a Voghenza, nel ferrarese, ma avvenne un imprevisto. Gli animali che trasportavano le reliquie si fermarono e non ci fu verso a smuoverli. Visto come un segno del Cielo, le reliquie furono deposte nella chiesa locale e, successivamente, depositate nella chiesa di Santo Stefano a Ferrara, dove riposano, forse, ai piedi dell’altare centrale della navata di destra. A San Leo rimase solo il sarcofago e, solo di recente, nel 1953, le autorità ecclesiastiche di Voghenza donarono alla comunità leontina un frammento sacro del santo.
Proprio per la sua posizione strategica e panoramica sulle valli del Montefeltro, San Leo e il suo castello furono più volte oggetto di contesa nel Medioevo tra Bizantini, Goti, Longobardi e Franchi, che sfruttarono questa caratteristica dal punto di vista militare.
Dante Alighieri nel Purgatorio, dopo aver parlato con Manfredi di Svevia, riprende il cammino, che appare faticoso, impervio e, volendone dare al lettore un’immagine somigliante lo paragonò alla rupe di San Leo, tra le altre località note per la loro asprezza.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e ‘n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
dico con l’ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.
(PG IV, 25 ss).
Le origini del castello risultano molto antiche e la sua prima menzione proviene dallo scrittore ecclesiastico Eugippio, vissuto a cavallo tra il V e il VI secolo. Nell’opera agiografica dedicata a san Severino, il religioso ricorda il suo soggiorno al “castelluni nomine Monteni Feletrem”, dove vi rimase qualche anno e dove morì Lucillo, il presbitero che aveva guidato Eugippio e i suoi dal lontano Norico.
Tra il 961 e il 963, il Marchese d’Ivrea e re d’Italia, Berengario II, si ritirò nella fortezza, che fu assediata da Ottone, chiamato in Italia da papa Giovanni XII.
Alla fine del 964, San Leo fu espugnata e Berengario II e sua moglie Willa, fatti prigionieri, furono esiliati a Bamberga, in alta Franconia. Feudatari, Comuni e Signorie si alternarono nel corso dei secoli al governo della rocca e del paese sottostante. Dal 1278 San Leo passò nelle mani di Guido di Montefeltro che lo tenne fino al 1282, andando allo Stato Pontificio.
Quindi dal 1298 al 1338 divenne un possesso di Tiberti di Petrella, per poi ritornare nuovamente ai Montefeltro e, ancora, alla Santa Sede.
Sul finire del Trecento, il castello passò come lascito testamentario alla famiglia dei Malatesti (Malatesta), che, pur con diverse interruzioni, lo tennero fino all’autunno del 1441. Il 22 ottobre, Federico da Montefeltro, dopo aver provato che ogni tentativo posto in essere per cercare di avere ragione della sua resistenza si era rivelato inutile, in una riunione “allargata” fece come propria una inedita linea d’azione da intraprendere, proposta dal celebre capitano di ventura Matteo Grifoni. Così lo storico Filippo Ugolini lasciò ai posteri l’incursione a sorpresa che comportò la conquista di San Leo.
“Struggevasi Federigo di restituire alla sua casa luogo così importante donde aveva essa tratta l’origine sua.
Ma come ridurre ad atto questo suo disegno, se in quella roccia altissima non potevano andare gli assalitori senza le ali?
E Gismondo vi aveva poste guardie fidatissime, benchè poche; perchè pochi bastavano a difendere un luogo cui la stessa natura si era incaricata di rendere inespugnabile. E pure un coraggio a tutta prova affronta e talvolta vince ostacoli creduti insuperabili .
Dicono che Matteo Grifoni si vantasse con Federico di espugnare San Leo, se gli dava venti soldati arditissimi a sua scelta: e i soldati ebbe e tutti d’Urbino. Una notte oscurissima, fatta più scura da cielo nuvoloso, l’intrepido Grifone, pratichissimo de’ luoghi, fornito di corde, ferri ed altri necessari arnesi ed otto insegne, si arrampica coi compagni per què dirupi, col pericolo ad ogni passo di essere inghiottito dal sottoposto abisso; e tanto gli è prospera la fortuna, che può afferrare cò suoi la sommità del masso, e impadronirsi di una delle guardiole che mancava di difensori, come fuor di mano e di accesso creduto impossibile.
È San Leo composto del castello e della città, fortissima anch’essa. La porta di San Leo (che una sola ne ha) si chiudeva di dentro e di fuori con catenacci, e il Grifoni la chiuse destramente al di fuori, affinché il presidio uscire non potesse: quindi nascose la sua piccola schiera in posto da non essere scoperto. Ed ecco spuntando l’alba, echeggiare per que’ dirupi le trombe di guerra: era Federico che, secondo il previo accordo, doveva far le mostre dell’assalto. I difensori del castello saltano fuori, e scendono a corsa nella città, e vanno alle porte per difendere prima, secondo il costume, i posti esterni d’importanza. Ma mentre s’affaticano per uscire, e non possono per l’impedimento, Matteo fa sbucare i suoi soldati e correre con le insegne spiegate per la città, gridando “Feltro, feltro” e s’indirizza alla rocca. I pochi difensori che vi erano rimasti supposero che i feltreschi fossero entrati in San Leo per segreta intelligenza cò cittadini; ne vedendo alcuno saltar fuori dalla città a contrastare gli approcci al nemico, e perciò credendosi abbandonati dai compagni, senza resistere si arresero. I soldati poi, scesi in città. scorgendo inalberate le insegne nemiche sulla fortezza, tementi di essere presi in mezzo, si dispersero per le case; e così Grifone poté introdurre il suo signore. Quanto fu lieto Federico di sì nobile acquisto, che avvenne ai 22 ottobre 1441, altrettanto ne provò cocente dolore il Malatesta, si per la perdita del luogo creduto inespugnabile, si per vedersi vinto e sopravvinto, lui maturo e provato guerriero, da guerriero quasi imberbe.” (Storia dei conti e dei duchi di Urbino, Vol. 1, L. IV, pp. 321 ss, 1859)
Fino a qual momento, il castello di San Leo era ancora quello risalente all’alto medioevo, costituito dal mastio centrale con torri quadrangolari inserite nelle mura fortificate. Federico volle adeguare l’impianto difensivo alle moderne tecniche militari e il progetto lo affidò al grande architetto senese Francesco Giorgio Martini, già al suo servizio e che aveva appena terminato di adattare alle nuove esigenze il non lontano castello di Sassocorvaro. Però, tali accorgimenti nulla poterono di fronte alla furbizia e oltreché all’abilità militare di uno dei protagonisti del Rinascimento Italiano. L’episodio, datato al 1502, costituiva uno degli ultimi atti di una vicenda travagliata che aveva avuto inizio nel 1499, allorché Cesare Borgia detto il Valentino, figlio del pontefice Alessandro VI, tentò di riacquistare il pieno controllo di tutte le piccole signorie dell’Umbria e della Romagna. Il dominio del Borgia si rivelò una breve parentesi, dato che qualche mese dopo la popolazione locale si sollevò, scacciando le truppe del Valentino.
Antonio Giustinian, che ricopriva l’incarico di ambasciatore veneziano presso la Santa Sede, fu testimone di quei momenti: “Un castello ditto San Leo, el più forte del Ducato d’Urbino, nel quale si dice erano tutte le robe che fo’ del duca, e del signor de Camerino, se ha sollevato contra el Duca de Valenza, e chiama el duca vecchio……Essendo venuti alle mani li uomini della terra con alcuni Spagnoli che erano alla guardia di essa, per cason de certe donne, el castellano se interpose alla pace e compose la differenzia. In segno de gratificazion de tal pace, fensero gli uomini della terra, voler fare un presente al castellano, al condur del quale furono aperte le porte del castello, dove concorse molta zente, e tanta, che parendogli essere più forti de li Spagnoli, li assaltorono, et hanno taiato a pezzi el castellan con quanti ne eran in sua compagnia” (A. Giustinian, Dispacci, a cura di P. Villari, Firenze, 1876).
Entrato in possesso nuovamente dell’abitato e del castello, Guidobaldo di Montefeltro lo tenne fino al 1508, quando la famiglia si estinse, a cui successe Francesco Maria I Della Rovere, suo nipote. Tuttavia, nel giugno del 1516, le forze della Santa Sede conversero sul ducato d’Urbino, conquistandolo, e, al culmine dell’estate, Lorenzo dé Medici, nipote del papa, ebbe ufficialmente l’investitura sul ducato. San Leo era riuscito a resistere, ma era solo una questione di tempo. Antonio Ricasoli, capitano delle truppe fiorentine, che contavano ben duemila fanti, riuscì a superare ogni scoglio, facendo salire i suoi uomini sulla parete rocciosa alla base della fortezza e, nella notte, penetrarono nel paese con la conseguente capitolazione della rocca. L’assedio, raffigurato in un dipinto del Vasari nella sala Leone X del Palazzo Vecchio di Firenze, trovò un particolare testimone nello storico Francesco Guicciardini, che lasciò traccia nel…. Comunque, i Della Rovere ripresero San Leo nel 1527 e rimase in mano loro fino al 1631, quando il Ducato di Urbino fu assegnato allo Stato Pontificio.
In seguito, il castello venne adibito a carcere. Servirono solo pochi accorgimenti: gli alloggi militari furono trasformati a celle, tirando su delle semplici mura interne, delle inferriate e portoni con tanto di catenacci. I prigionieri condannati per i reati più gravi erano incatenati e un capo della catena era legato a un anello di ferro confitto nel muro, ancor oggi visibile in ogni cella. Qui furono imprigionati alcuni patrioti italiani, come il carbonaro e mazziniano Felice Orsini e i riminesi Andrea Borzatti e Enrico Serpieri. Il castello fu luogo di prigionia e di morte per il palermitano Giuseppe Balsamo, l’abile furbacchione che, durante il secolo dei Lumi, seppe costruire attorno a sé un alone di leggenda. L’uomo, passato alla storia anche come il conte Alessandro Cagliostro, venne condannato il 7 aprile 1791, dopo un processo simbolico, volendo con ciò colpire uno dei più “originali” protagonisti della Massoneria, principale veicolo e diffusore delle nuove idee prodotte dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione.
Giorni dopo, il 20 aprile, consegnato al braccio secolare, viene condotto dapprima a Castel Sant’Angelo e poi fu trasferito a San Leo, affinché fosse custodito “senza speranza di grazia”. I primi mesi li trascorse dentro una cella in regime duro, ma non era nulla a confronto alla successiva. Fu, infatti, calato in una nuova cella di pochi metri quadrati, il cui unico accesso era una botola posta sul soffitto. L’unica finestra con tanto di barre era così minuscola da poter scorgere solo un brandello di cielo e le due chiese dell’abitato di San Leo. Qui trascorse gli ultimi anni della sua vita, con la sola compagnia della follia, che lo prese presto.
Il 23 agosto 1795, le guardie lo trovarono semi paralizzato, ormai più là che qua. Il cappellano del castello, frà Cristoforo da Cicerchia lasciò scritto:
“Restò in quello stato apoplettico per tre giorni, ne’ quali sempre apparve ostinato negli errori suoi, non volendo sentir parlare né di penitenza né di confessione. Infine de’ quali tre giorni Dio benedetto giustamente sdegnato contro un empio, che ne aveva arrogantemente violate le sante leggi, lo abbandonò al suo peccato ed in esso miseramente lo lasciò morire; esempio terribile per tutti coloro che si abbandonano alla intemperanza de’ piaceri in questo mondo, e ai deliri della moderna filosofia. La sera del 26 fu tolto dalla sua prigione per ordine de’ suoi superiori, e fu trasportato al ponente della spianata di questa fortezza di S. Leo, ed ivi fu sepolto come un infedele, indegno dei suffragi di Santa Chiesa, a cui non aveva quell’infelice voluto mai credere”. Dato che era quasi impossibile fuggire e le condizioni di vita dei prigionieri disumane, la sua destinazione a bagno penale rimase fino al 1906. In seguito, sempre alle dipendenze dell’esercito, venne destinato a semplice caserma.
In questo borgo, vero e proprio museo a cielo aperto, ogni palazzo, chiesa o una singola opera d’arte ricordano un’epoca, una persona e il mantenerle in vita è un modo per prolungarne la presenza, per cui non è difficile immaginare di girare un vicolo e trovarsi a tu per tu con Federico di Montefeltro, Dante Alighieri o, ancora, san Francesco.
Raggiunta la centrale Piazza Dante, “umbilicus” romanico del borgo, nel quale è possibile ascoltare “lo stillare del tempo nel mistero dei paesi” del poeta Luzi, si trova il Palazzo dei Conti Severini Nardini, le cui stanze ospitarono un’ospite, che avrebbe rigenerato fin le sue fondamenta il Cristianesimo: san Francesco d’Assisi. Come raccontato dai Fioretti, l’8 maggio del 1213, san Francesco si trovava a San Leo in occasione dell’investitura di un cavaliere e, all’ombra di un olmo tenne una predica sui versi di una canzone del tempo, “tanto è il bene che io m’aspetto che ogni pena m’è diletto”, che sciolse l’animo di uno dei presenti, il nobile Orlando Cattani, il quale volle donargli un monte, passato alla storia come uno centri più importanti del francescanesimo. Il suo ricordo non venne meno nella popolazione, tanto che l’evento si è cristallizzato nello stemma civico di san Leo, che riproduce la figura di san Francesco: Partito d’argento, alla figura di san Francesco d’Assisi, in maestà e in atto di predicare sotto un olmo, il tutto al naturale e d’oro, all’aquila di nero bicipite, coronata di una corona all’antica. Motto: Vetusta Feretrana Civitas Invicta Sancti Leonis»
(D.R. 13 aprile 1902).
Nel periodo delle origini dell’episcopato leontino, la chiesa dedicata all’Assunta risulta una delle più antiche del comprensorio e portatrice ab origine della qualifica pievanile. Mostra un impianto basilicale romanico diviso in tre navate da sei colonne con capitelli corinzi del I – IV secolo d.C., elementi di reimpiego, provenienti da qualche edificio romano non lontano. Vi si accede attraverso due portali con arco a tutto sesto, posti ai lati e sormontati da una loggetta cieca.
Purtroppo, alcuni restauri effettuati negli anni Trenta del ‘900 hanno cancellato per sempre gli ultimi lacerti di affreschi, che ricoprivano le pareti interne. Il presbiterio, posto sopra la cripta, custodisce il ciborio del tardo IX secolo, dedicato dal duca Orso alla Vergine:
AD HONORE (M) D (OMI) NOSTRI IH (ES) U XP (IST) I ET S (AN) C (T) E D (E) I IENETRICIS SE (M) P (ER)/QUE VIRGINIS MARIE. ECO QUIDEM URSUS PECCATOR/DUX IUSSIT ROGO VOS OM(NE) S QUI HUNC LEGITIS ORATE P(RO) ME/TEMPORIBUS DOM(I) NO IOH(ANNIS) P (A) P (E) ET KAROLI TERTIO IMP (ERATORIS) IND(ICTIONE) XV/.
Accanto fa bella figura di sé il Palazzo Mediceo. L’edificio è stato ristrutturato agli inizi del ‘600 dai Della Rovere, su un preesistente corpo di fabbrica cinquecentesco su commissione della Repubblica Fiorentina, per insediarvi il governatore di San Leo e dell’intero Montefeltro.
La facciata principale è dominata da cornicioni in pietra modanata e da un portale a tutto sesto, incorniciato da una ghiera in bugnato liscio. Attualmente l’edificio ospita l’Ufficio Turistico al piano terreno, mentre al piano superiore trova posto il Museo d’Arte Sacra.
Pochi passi e ci accoglie il duomo. La chiesa dedicata a santo Leone è il cuore della fede leontina. Sede vescovile fin dalla sua prima costruzione, avvenuta nel VII secolo, l’edificio presenta un impianto a croce latina, affiancata da due navate minori. Il presbiterio, edificato sopra la cripta, custodiva il corpo del santo.
Vicino si trova la Torre Civica, edificata intorno all’XI secolo. Presenta una struttura quadrata, che nasconde al suo interno una pianta circolare, forse indizio di una torre più antica. Qui, gli ecclesiastici e i maggiorenti laici trovavano rifugio nei periodi di pericoli.
Il borgo e il suo seducente impianto di palazzi, chiese, case, vicoli e scalinate costituiscono senza ombra di dubbio una parte essenziale dell’immaginario sulla bellezza delle terre italiane, dove, rubando le parole di Paul Morand, si può “prendersi il proprio tempo”, viaggiando a ritroso nel tempo alla scoperta dei luoghi autentici e delle tradizioni del passato, aiutati dagli stessi leontini, desiderosi di far conoscere quanto di bello vivono quotidianamente. Nel corso di un’intervista, Umberto Eco, divenuto cittadino onorario di San Leo nel giugno del 2011, si trovò a definire la capitale del Montefeltro “una rocca e due chiese: la città più bella d’Italia”.
Il borgo di Sesto al Reghena simboleggia uno delle innumerevoli conferme su quanto si riferisce della nostra Penisola, ossia che ogni angolo d’Italia rappresenti un forziere senza fondo, il cui contenuto è un tesoro di storia e tradizioni antiche, il cui fascino è rimasto inalterato nel corso dei secoli. In effetti, anche questo delizioso borgo è avvolto da una suggestiva atmosfera in cui le diverse età della Storia sembrano amalgamarsi in un tutt’uno per niente testimone di silenti tempi andati. Incastonato nella pianura veneto friulana, Sesto al Reghena è un comune in provincia di Pordenone, che volta le spalle alle località di San Vito al Tagliamento, Chions e Cordovado e guarda a sud ovest alla provincia di Venezia con le località di Gruaro e Cinto Caomaggiore.
In questa terra, come in ogni landa del Friuli-Venezia Giulia, natura e cultura si saldano e ogni cosa sembra essere a misura d’uomo. Gli stessi ritmi e tempi sono scanditi dai ritmi naturali delle stagioni e dal buon vivere, benché, o forse, a causa del suo essere luogo di transito e punto d’incontro tra le genti.
La genesi di Sesto e la sua evoluzione urbana fino alla tarda antichità sono ancora poco note e, ancor più, risulta difficile qualsiasi tentativo di ricostruzione, per quanto negli ultimi decenni le conoscenze si siano arricchite grazie a nuove scoperte archeologiche, come quelle avvenute a poco meno di un chilometro dal suo centro storico, e il suo stesso toponimo potrebbe offrire molto nel dare un’imbeccata su qualcosa di più di un semplice incanto, ottimale per rinfocolare i tanti miti e leggende che avvolgono queste terre.
Poco distante, in un’area risorgiva si trova il sito archeologico di Pramarine di Sesto, i cui primi ritrovamenti risalgono alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Qui sono state rinvenute delle strutture abitative su bonifica lignea in ambiente umido di età del Bronzo e le testimonianze materiali hanno testato il suo ruolo di cerniera fluida tra le influenze carsiche e quelle venetiche, come altri centri coevi non lontani. La frequentazione di età romana, invece, troverebbe eco nel toponimo, evocando la presenza di una struttura, una stazione stradale, posta al sesto miliario lungo la via che univa la città di Concordia alle località oltramontane, al di là di alcuni rinvenimenti di incerta interpretazione. Comunque sia, di fatto Sesto si identifica intimamente con l’Abbazia di Santa Maria, centro della vita sociale ed economica del territorio.
Le origini del cenacolo risalgono alla prima metà dell’VIII secolo e la sua denominazione completa, Santa Maria in Silvis, deriva dalla presenza di una foresta, della quale oggi non rimane alcuna sopravvivenza. Si trattava di un semplice tempio, legato alla proprietà di un possidente locale e, soprattutto, funzionale alla comunità locale. Di questo originario edificio non si è conservato nulla. Scavi archeologici effettuati a nord dell’attuale abbazia hanno ricavato le dimensioni della struttura e la posizione degli accessi al luogo di culto di un successivo tempio risalente all’epoca medioevale. L’interno era di tipo conventuale, ad una sola navata con in fondo un’abside curvilineo e due piccole cappelle quadrate absidate.
Una “cartula donationis”, redatta nell’abbazia di Nonantola nei pressi di Modena, nel maggio 762, preserva il ricordo della donazione di importanti beni tra il fiume Tagliamento e il Livenza al monastero benedettino maschile di Santa Maria a Sesto al Reghena. Il benefattore, o meglio, gli autori di questo gesto furono tre nobili fratelli e della rispettiva madre, probabilmente legati alla casata ducale. I loro nomi erano Erfo, Anto, Marco e Piltrude. Dopo di che presero i voti, ritirandosi a vita monastica. In particolare, Erfo raggiunse la Toscana e qui fondò il monastero di san Salvatore al Monte Amiata, divenendo il primo abate. Altre donazioni e immunità vennero fatte successivamente da Carlo Magno (775), Lotario I (830), Ludovico II (865), Carlo III (881) e Berengario I (888).
Nella prima metà del X secolo, iniziarono le escursioni degli Ungheri, che percorsero in lungo e in largo le terre dell’Italia settentrionale, devastando tutto ciò che poterono mettere mano. Le pianure friulane furono messe a ferro e fuoco e molte località rischiarono di perdersi per sempre nella memoria storica. Tra queste anche Sesto al Reghena, che, nell’899 conobbe la crudeltà della torma ungara, minacciando la stessa sua esistenza. Dovettero passare molti anni prima che qualcuno ponesse mano alla sua ricostruzione, superando qualsiasi fatalistica rassegnazione. Intorno al 960, l’abate Adalberto II, che guidò Santa Maria fino al 966, la riedificò in buona parte apportandovi sostanziali novità rispetto al passato, fra tutto l’aspetto fortificato con mura, sette torri e i consueti fossati, che avrebbe garantito una certa resistenza di fronte agli attacchi esterni. Si assicurò, inoltre, di creare una cintura fortificata, che prevedesse la costruzione di castelli nei paesi vicini, quali ad esempio Gruaro e Fratta, con l’intento di dare sollievo alla popolazione locale e, allo stesso tempo, di frenare eventuali aggressori in direzione dell’abbazia.
Qualche anno dopo, nel 967, Ottone I, imperatore del Sacro Romano Impero, concesse a Radoaldo, patriarca di Aquileia, l’abbazia di Santa Maria di Sesto e altri beni nella Bassa friulana e veneta, avviando il già in corso sviluppo formativo del processo signorile del patriarcato. Intorno al 1110, l’abbazia riuscì ad affrancarsi dal Patriarcato, ponendosi sotto la potestà del papa e dell’imperatore, determinando così un periodo di particolare prosperità, tanto da divenire uno dei poli più importanti del Friuli e non solo dal punto di vista economico, ma anche in quello culturale. Nella primavera del 1420, lo Stato patriarcale di Aquileia cessa almeno formalmente la sua esistenza e i suoi territori, con l’esclusione di quelli del conte di Gorizia, passarono sotto il dominio della Repubblica di Venezia. A partire dal febbraio del 1441, dopo che i benedettini lasciarono il cenobio, il pontefice Eugenio IV la istituì in commenda, ovvero fu assegnata a prelati secolari, che erano esonerati dalla residenza in loco. Il primo abate commendatario diverrà il cardinale Pietro Barbo, il futuro papa Paolo II, e, dopo quattordici abati successivi, la serie si chiuse con Giovanni Corner. Dopo di che il Senato Veneziano decise la soppressione dell’abbazia, alienandone i beni e i diritti, che furono messi all’asta poco dopo. Nel 1818, la parrocchia di Sesto e buona parte delle sue dipendenze passarono sotto la giurisdizione religiosa del vescovo di Concordia, concludendo di fatto il processo avviato nel febbraio del 1798 con il decreto del Senato Veneto, secondo il quale il vescovo di Concordia avrebbe provveduto alla cura spirituale della parrocchia di Sesto e le sue attinenze sulla destra del Tagliamento, mentre l’arcivescovo di Udine avrebbe curato quelle poste sulla sinistra del fiume. Nel dicembre del 1921, l’autorità pontificia riconobbe nuovamente alla chiesa di Sesto il titolo abbaziale, come l’arciprete venne insignito del titolo di “abate parroco ad honorem”, per ottenere anni dopo un successivo titolo, quello di prelato domestico di Sua Santità. Infine, il 12 maggio 1959, divenne titolare della carica onorifica papale di protonotario apostolico ad instar participantium.
Attraversate le strette e caratteristiche viuzze del paese e raggiunta piazza Cardinale Barbo, si può lasciare l’auto nel parcheggio a pagamento. Un marciapiede ci porta all’ingresso del cuore pulsante del paese ed è costituito da una torre fortificata, la torre Grimani, l’unica delle sette sopravvissuta.
Come in ogni luogo fortificato che si rispetti, la torre era dotata di un ponte levatoio, ma nel Settecento nel corso dei restauri effettuati venne sostituito con un ponte di pietra. Sulla sua facciata un leone di San Marco di fine Quattrocento fa bella mostra di sé, sotto un bassorilievo con lo stemma del cardinale Grimani, affiancato alla sua sinistra da un affresco con lo stemma familiare dell’alto prelato e a destra un altro affresco di cui si ignora il committente. Qualche palmo sotto l’allegoria del buon governo veneziano e della famiglia Grimani, che amministrava la Abbazia di Sesto sia quello che era stato il secolare Patriarcato di Aquileia.
Lasciata alle spalle la Torre, si fa incontro una piazzetta pavimentata. Da qui, con un semplice colpo d’occhio si spazia sull’abbazia e sugli edifici che l’attorniano, a partire dal campanile posto quasi di fronte all’ingresso.
Il campanile, in origine una torre vedetta eretta intorno al 1050 d.C., è alto poco più di una trentina di metri e possiede una base di poco meno di otto metri; la struttura del fusto è del tutto realizzata in mattoni e l’orologio si colloca al Settecento. Adiacente, su un lato vi è un portale rinascimentale, che apre al parco retrostante. Sull’altro lato, invece, si erge un edificio in mattoni, risalente al XII-XIII secolo, che ha subito nel corso del tempo alcune modifiche, conservando in linea di massima le caratteristiche tipologiche e architettoniche originarie, comprese le decorazioni costituite dalle bifore, trifore, quadrifore ed esafore, aperte e chiuse. Forse, la sua particolare collocazione, che lo pone di fronte all’abbazia, centro del potere religioso, e talune indicazioni testimoniali lo indicherebbero come la sede dell’autorità civile, oggi adibito ad asilo.
Dall’altra parte, anch’essa affacciata sulla piazzetta, l’abbazia.
Il suo esterno si muove per mezzo di una loggia e il portico d’ingresso, dove figure e colori narrano storie a chi voglia ancora ascoltarle. Due affreschi del portale, risalenti all’XI -XII secolo, raffigurano il fondatore dell’ordine benedettino e l’arcangelo Gabriele, posto all’interno di una lunetta. Poco sopra, la decorazione si conclude con delle trifore. San Cristoforo, la Madonna con Bambino e i santissimi Pietro e Giovanni battista occupano parte delle mura esterne della loggia; mentre le mura interne scorrono, raffigurando il ciclo affrescato di Carlo Magno seduto tra i suoi vassalli e un’investitura. Dirimpettaia una scala balaustrata accompagna ad un ampio ambiente, definito in origine come il coro notturno dei monaci.
Il vestibolo della chiesa si presenta come un ambiente rettangolare di modeste dimensioni e interamente affrescato, con soffitto a travature scoperte, che gli stemmi sul soffitto tradiscono l’epoca della manifattura, facendola risalire al periodo dell’abate commendatario Pietro Barbo. Subito dopo il portale d’ingresso, lungo la parete di sinistra il ciclo pittorico raffigurante l’inferno, affrescato da Antonio da Firenze tra il 1503 e il 1506; il Paradiso, invece, si modula sulla parete di destra; infine, sulla controfacciata dell’ingresso l’affresco dell’arcangelo Michele, che anticipa le messe in scena che si svolgono lungo le pareti vicine.
Quest’ultima figura è rappresentata con armatura e una lunga spada in mano, mentre calca con il piede sinistro un diavolo, rispettando la tradizione iconografica medioevale, che vede l’arcangelo il capo delle schiere angeliche contro gli angeli ribelli e il “pesatore” di anime, per separare i buoni dai malvagi. Le anime dei retti sono portate in volo in Paradiso, mentre le anime dei dannati sono prese dai diavoli e condotti all’inferno. Per quanto rovinato dal tempo e dall’ingenuità (sic) dei fedeli dei secoli andati, la narrazione dell’inferno è leggibile nei suoi tratti generali. I demoni cacciano con forza le anime dannate, le quali vengono ammassate nei gironi secondo le pene del contrappasso, dando vita ad un’orgia di orrori, con le anime perse sottoposte a torture feroci. Punto focale della composizione è rappresentata dalla figura di Lucifero, immerso fino alla cintola nelle acque del lago del Cocito. Le sue ali sono spiegate e provocano il vento gelido che flagellano le acque gelate del lago, dove le anime dei traditori sono immerse nella distesa ghiacciata fino alle spalle; ed è colto nel mentre maciulla i corpi, forse da individuare in Bruto, Cassio e Giuda, dopo averli stritolati con le mani.
Risaliti i gironi infernali e progrediti oltre i sette cieli dell’empireo del Paradiso, contraddistinti dai cori di cherubini e serafini, l’inquadramento scenografico si sofferma sulla figura di Maria, incoronata dal Figlio, che indossa la tunica rossa, colore che rimanda al martirio, e mantello azzurro, richiamo alla regalità. La Vergine, genuflessa, è colta in preghiera ed è avvolta da un mantello di stelle. Ai lati sono disposte le fila dei Beati, tutti quanti riconoscibili dai loro simboli o figure. Si distinguono in alto i Giusti dell’Antico Testamento, sotto gli Apostoli e gli Evangelisti. Quindi si osservano i Padri, i Dottori gli Eremiti i fondatori degli ordini e, infine, le donne sante. Una corona di angeli festanti, che si tengono la mano l’uno con l’altro, esultano intorno; mentre altri sono intenti a cantare quando altri ancora sono alle prese con strumenti musicali.
A sinistra del vestibolo una piccola stanza adibita a piccolo Museo con i reperti archeologici per lo più di epoca medioevale rinvenuti nel territorio. La stanzetta è adornata altresì da un affresco raffigurante l’abbazia stessa, circondata da mura e torri. Dalla parte opposta si apre la Sala delle Udienze, l’originario refettorio degli abati, oggi piccola pinacoteca, dove è possibile osservare “l’Immacolata in gloria tra i santi Francesco di Paola”, Girolamo, Eurosia e Martino vescovo e Sant’Andrea con i santi Giovanni Battista e Luciano martire”, attribuite a Biagio Cestari di Osoppo, artista del XVIII secolo. La chiesa, divisa in tre navate da pilastri a forma quadrangolare, appare ricca nelle decorazioni e negli arredi, tra i quali risaltano i notevoli affreschi parietali, come quello risalente al Trecento, posto subito a destra della porta d’ingresso. La sua narrazione con sfondo allegorico e moraleggiante è un tema iconografico medioevale con funzione di “memento mori” (ricordati che devi morire), come il “Trionfo della Morte” e la “Danza Macabra”.
Il soggetto narra di tre nobili a cavallo all’interno di un bosco, quando si trovano inaspettatamente davanti a tre bare con tre corpi in tre fasi di decomposizione. I cavalieri reagiscono in modo diverso. Il primo si allontana all’istante; il secondo, terrificato, si copre il viso con le mani; infine, il terzo si copre il naso, quando un monaco esce alla vista dal suo eremo e legge la sua meditazione sulla vanità della vita. Nel presbiterio rimarchevoli sono le pitture di scuola giottesca del XIV secolo, come quelle presenti nell’abside quale l’Incoronazione della Vergine e la Natività del Cristo. Tra le opere della navata centrale, si rammentano il “San Benedetto istruisce i monaci” e il “San Benedetto conforta i poveri”; e, sul transetto, il notevole “Lignum Vitae”.
La sottostante e suggestiva cripta si presenta divisa da colonnine e copertura a volta, e custodisce l’urna di Sant’Anastasia dell’VIII secolo di marmo decorato, decisamente reimpiego di resti di una cattedra. Per ultime, le sculture del XIII secolo ritraente l’Annunciazione con angelo e la Vergine, inseriti in una nicchia,
e la Pietà (Vesperbild) del XV secolo attribuita alla scuola nordica.
Ritornati all’esterno, adiacente alla loggetta e all’accesso del vestibolo della chiesa vi è l’attuale Palazzo del Comune. Il passato architettonico dell’edificio trae le proprie origini tra il XII e il XIII secolo con la destinazione di residenza abbaziale, per finire, intorno alla fine dell’Ottocento, la sede municipale. La facciata principale è decorata con quattro stemmi fatti tra il XVII e il XVIII dagli abati commendatari.
Dietro la casa municipale, un’altra sorpresa. Delle pietre ricostruiscono in superficie il luogo dove sorgeva la chiesa medioevale, subito ricoperta dopo le indagini archeologiche, che si organizzava intorno ad una pianta costituita da una navata con abside a semicerchio, affiancata da due cappelle a pianta quadrata, anch’essi con abside.
Sesto al Reghena è un luogo incantevole, che regala emozioni profonde di un “bel tempo che fu”, malgrado l’incedere del tempo, combattuto non solo con la storia e le bellezze artistiche, ma anche con l’ospitalità che lo contraddistingue tanto da averlo fatto balzare agli onori nazionali, come uno dei borghi più belli d’Italia.
E’ una giornata di festa per i veneziani e per i veneziani amanti di Dante, il sommo poeta