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La Candelora: la purificazione di Maria e la presentazione del Signore al Tempio di Gerusalemme.

A chiusura della festività natalizia e dei rituali ad essa collegata, si celebra il 2 febbraio una ricorrenza calendariale e liturgica tra le più antiche dell’anno liturgico cristiano. Essa è conosciuta dalla pietà popolare come la Candelora, una festa in particolar modo sentita dalle comunità contadine, che, dopo la processione del clero e del popolo e il rito delle candele, attendevano tutta una serie di indizi più o meno empirici, per capire fino a quando sarebbe durato il freddo invernale. La sua origine viene fissata sul finire del IV secolo nell’Oriente cristiano. Una nobildonna di nome Egeria, che aveva compiuto un lungo pellegrinaggio in Terrasanta fra il 381 e il 384, ha lasciato una straordinaria testimonianza di una festa, che si celebrava a Gerusalemme: “Il quarantesimo giorno dopo l’Epifania è qui celebrato veramente con grande onore. Quel giorno si va in processione all’Anastasis (la chiesa eretta sul santo Sepolcro), vi si recano tutti e ogni rito si svolge secondo l’uso prestabilito, con la massima esultanza, come si fa per Pasqua. Predicano anche tutti i sacerdoti e poi il vescovo, commentando sempre il passo del vangelo in cui si narra che il quarantesimo giorno Giuseppe e Maria portarono il Signore al tempio e lo videro Simone e la profetessa Anna, figlia di Fanuele, e le parole da loro pronunciate alla vista del Signore, e l’offerta che fecero i genitori. Poi, compiuto per ordine tutto quanto è consuetudine fare, si celebra l’Eucarestia” (Itinerarium Egeriae, n. 26. Nicoletta Natalucci. Egeria. Pellegrinaggio in Terra Santa, Firenze 1991, pp. 172-173).

Egeria, dunque, ci conduce agevolmente nell’ambiente gerosolomitano in cui era viva questa ricorrenza e appunta la sua attenzione, arricchendo la sua già generosa testimonianza, sui diversi riti da lei vissuti, come il “lucernario”, il cui rituale si esplicava nell’accensione di “tutte le lampade e i ceri”, con la fiamma che ardeva nel Santo Sepolcro, “facendo così una luce grandissima” (Itinerarium 24, 4), rappresentando la conclusione del ciclo natalizio e il preludio di quello pasquale.

L’intreccio rituale della festa aveva come nucleo narrativo un episodio riportato dal Vangelo di Luca (2, 22 – 39), dove si narra che quaranta giorni dopo il Natale, Maria e Giuseppe condussero il piccolo Gesù al Tempio di Gerusalemme, per adempiere a quanto prescritto dalla legge mosaica, evocando di fatto le parole del profeta Malachia (3, 1-4) sull’ingresso di Dio nel suo Tempio. Qui avvenne l’incontro con il vecchio Simeone, che strinse Gesù tra le sue braccia e benedisse Dio, proclamando:

“Ora puoi lasciare, O Signore, che il tuo servo
Vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele”.

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Alexey Yegorov, Simeone il Vecchio

La chiesa orientale diede un rilievo cristologico all’evento e lo assunse quale elemento simbolico dell’incontro tra il Messia e il suo popolo: “Rallegrati pure tu, o giusto Vegliardo, che hai ricevuto fra le braccia il Liberatore delle nostre anime, che ci accorda anche la resurrezione” (Romano il Melode, VI secolo). La sua celebrazione fu stabilita il 14 febbraio, contando i quaranta giorni da Natale, fissato allora al 6 gennaio; e fu denominata nel V secolo con il titolo greco “Hypapanté” (incontro), associandovi il rituale della processione con ceri benedetti, chiara allusione a Gesù, “Luce per illuminare le genti” (Luca, 2, 32).

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Tintoretto, Presentazione di Gesù al Tempio

Successivamente all’istituzione del Natale al 25 dicembre, la ricorrenza dell’Hypapanté fu spostata, in virtù dei quaranta giorni da Natale, al 2 febbraio, modificando in occidente la tonalità della festa da cristologica a mariana, tanto da assumere la denominazione “Purificatio Sanctae Mariae”, sottolineando il precetto vetero testamentario riportato da Luca, secondo il quale le puerpere erano considerate impure per un lasso di tempo di quaranta giorni, se avevano messo al mondo un maschietto, o di ottanta giorni, se il primo vagito era quello di una femminuccia.

Stando alle annotazioni riportate dal “Liber Pontificalis”, fonte primaria sulle vite e le opere dei vescovi di Roma nella tarda antichità e nell’alto medioevo, si deve al pontificato del siriaco Sergio I (687-701), l’introduzione della festa dell’Hypapanté a Roma, la cui ritualità prevedeva anche la processione notturna che, dopo aver attraversato i fori di Nerva e Traiano, oltrepassava l’Esquilino e raggiungeva la basilica di Santa Maria Maggiore, all’interno della quale si celebrava l’Eucarestia.

Esiste, tuttavia, una lunga diatriba storiografica sulla processione del 2 febbraio a Roma, la cui vulgata appare irriconciliabile, apparentemente senza vincitori e vinti. Da un lato, ci si arrocca sulla sua origine orientale con la sua estensione voluta da papa Sergio; per contro si ravvede in questa celebrazione la cristianizzazione di una festa pagana, che entrò così a far parte del patrimonio del Cristianesimo. In effetti, quest’ultima trova le sue ragioni in un celebre episodio, il cui protagonista principale fu un altro pontefice, papa Gelasio I, vissuto alla fine del V secolo. In quegli anni, Roma si trovava alle prese con una pestilenza di ampie proporzioni. Andromaco e altri senatori si fecero promotori della rievocazione dei Lupercali, una festa pagana della purificazione e della fecondità, con il fine di placarla. Nel corso dei Lupercali, che avveniva il 15 febbraio, alcuni giovani vestiti da pelli, secondo un arcaico costume, percorrevano la città per scacciare malattie e disgrazie. Gelasio levò contro la sua voce e scrisse un veemente trattato, “Adversus Andromachum senatorem”, nel quale pose l’accento sul fatto che non si può partecipare contemporaneamente alla mensa dei demoni e di Dio. Inoltre, ricordò che i lupercali non avevano prodotto alcun giovamento alla città di Roma. Alarico ne era un solo esempio. Dopo aver posto il veto assoluto ai fedeli di partecipare in qualsiasi modo alla festa, Gelasio introdusse la festa della Purificazione di Maria con la processione delle candele, con il fine non tanto velato di opporsi alla processione dei lupercali. Secoli dopo, la processione diverrà la Candelora, dopo aver assorbito la benedizione dei ceri (“festa cereorum”), rito in uso in Francia e risalente al IX e X secolo.

La riforma liturgica apportata dal Concilio Vaticano II (1962-1965) recuperò la tonalità cristologica della festa, ponendo nuovamente l’accento sulla presentazione di Gesù al Tempio, quale offerta di Maria al Signore, e diede la denominazione attuale.

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Mantegna, Presentazione al tempio

In tutta Italia, non vi è un paese, grande o piccolo, che non si festeggi la ricorrenza della Candelora. La tradizione e la pietà popolare guardano con speranza all’accensione delle candele benedette, rito propiziatorio della fertilità per il prossimo raccolto, dopo aver superato l’asprezza della cattiva stagione e del gelo, rappresentata dai “giorni della merla” di fine gennaio; e, nel contempo, aspettano i prossimi giorni a venire, contraddistinti dalla gioiosa confusione del Carnevale.

I riti di fuoco nel Veneto e nel Friuli occidentale

In una società in continua evoluzione quale la nostra, in cui i valori fondamentali del passato tendono a sclerotizzarsi, taluni processi rievocativi sono volti a riesumare riti e tradizioni del passato, riannodando i fili della propria memoria storica. A questo sono da annoverare i numerosi riti di fuoco nel Veneto e nel Friuli occidentale, nelle notti che chiudono il ciclo del solstizio d’inverno, per quanto decontestualizzati dalla società originaria che li aveva prodotti.
L’accensione dei fuochi nel solstizio invernale è stata adeguatamente iniziata ad un rito agrario, nel quale si evocava il trionfo del sole sulle tenebre e, successivamente, il rituale cristiano paraliturgico ne ha accolto la simbologia, associandovi la “manifestazione della divinità, rivelazione del mistero” (Paolo, Ef., 3, 2-3° 5-6) e il ritorno dei Magi in patria “per altra via” (Mt. 2, 1-12).
Non raramente alcuni studiosi hanno ricondotto questo rito e la sua escatologia entro uno schema della religione celtica, fondandosi sull’analogia di espressioni rituali, ravvisandovi dunque il culto del dio Baleno, che personificava la luce e il calore vivificante. Non è mancato chi vi abbia ravvisato l’eco della festa dei “Saturnalia”, celebrata in onore del dio Saturno, antica divinità dell’età dell’oro e protettore della semina; oppure la coda della festa del Sole Invitto, che l’imperatore Aureliano aveva istituito il 25 dicembre, alla quale si sovrappose il cristiano Natale.

In ogni modo, questo rito trovava una sua origine nella percezione millenaria delle comunità contadine, che aveva ben compreso la portata di questo momento magico, la vittoria della luce sulle tenebre. In seguito al solstizio d’inverno, il giorno in cui il sole, nell’emisfero boreale, sorge nel punto più meridionale dell’orizzonte orientale, e culmina, a mezzogiorno, alla minima altezza, ogni sforzo doveva essere predisposto alla prossima stagione delle messi, compreso di rinvigorire i raggi del sole con il fuoco vivificante dei falò, che avrebbe rigenerato la fertilità dei campi. Da secoli, infatti, “a contatto con la natura e le sue manifestazioni, l’uomo contadino vive nel ciclo stagionale la lotta incessante tra le forze benefiche che danno la vita, la grazia e le forze malefiche che hanno con sé la morte, la disgrazia; teme l’oppressione del male, della fame, delle malattie. Contro il male, la peste, la carestia, l’inondazione e la siccità, egli si rivolge alla protezione della Madonna, dei santi, secondo il suo modo di concepire l’atto religioso e il culto, molto spesso senza alcuna mediazione della chiesa. È una religione in cui non mancano aspetti di una magia legata a riti arcaici e soprattutto alla ritualità agraria di origine pagana” (D. Coltro, L’altra cultura. Sillabario della tradizione orale veneta, Verona, 1998, p. 143).

Nel Triveneto, l’accensione dei falò propiziatori ha assunto diverse denominazioni, tra le quali “Rogo déa vècia”, “Pavinèr”, “Foghèra”, e così via; nel Friuli si ricordano tra i molti il “Falòp”, il “Pignaròn”. Nel Trevigiano prevalgono i nomi di “Panain” o “Panevin”, richiamandosi al pane e al vino, simboli primordiali dell’abbondanza; di “Fogaràta” e “Bubaràta”, ambedue sinonimi di falò.

Stando alle diverse tradizioni, i fuochi si accendevano nel periodo tra il Natale e l’Epifania, in particolare durante l’imbrunire del 3, 5, 6 e il 7 gennaio. La notte del tre gennaio il fuoco trovava una sua corrispondenza nella rappresentazione della manifestazione di Gesù, il quale aveva impresso la sua luce a tutta l’umanità, la sua “luce inaccessibile” (Kontakion della Festa) o, più prosaicamente, il numero originario dei Magi. Il falò acceso nella sera del cinque gennaio possedeva una doppia valenza, sottintendendo l’abbondanza dei raccolti, i cinque pani nel miracolo della moltiplicazione riferito da Matteo (16,9), e, ancora una volta, la luce, questa volta della cometa che aveva rischiarato il cammino dei magi. Anche nella notte del 6 gennaio la pira infuocata si trovava a possedere questa singolare ambivalenza. Sei erano le urne di pietra, colme di acqua, che il Signore trasformerà nel vino nuziale a Cana (Gv. 2, 155), mentre le fiamme assumono le sembianze di cortina folgorante, quale sfondo del Messia in grembo della Vergine madre. Qui, forse, si celano i fondamenti della ritualità cultuale originaria, che rimanderebbero alle divinità pagane risananti quali la Reitia di Este o la Trumusiati di Lagole. Infine, la notte del sette gennaio, numero magico e misterioso, si ricordano i fuochi, che avevano aiutato i Magi a fare ritorno a casa, rischiarando loro il cammino.

Oggi le singole associazioni che organizzano l’evento, si trovano spesso a porlo in spazi, luoghi che nulla hanno a che vedere con il passato, altro indizio dell’inevitabile decontestualizzazione. Per lo più, i fuochi arderanno nelle piazze, nei campi sportivi, lungo le sponde di qualche fiume, oppure nei terreni aperti in prossimità delle chiese, capaci di ospitare numerose persone e, ovviamente, al riparo da eventuali incendi. Non mancheranno, purtroppo, i soliti mortaretti e, solo in alcuni casi per fortuna, della musica sparata a chissà quanti decibel. Negli anni che furono, il luogo non era scelto in base alla capienza o alla sicurezza, bensì doveva coincidere con il campo ritenuto più produttivo e la catasta doveva essere posta sul posto più alto, rispetto all’area circostante, rievocandovi arcaici riti di purificazione e di iniziazione.

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Portegrandi di Quarto d’Altino, gennaio 2020

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Casale sul Sile, gennaio 2020

Lo scheletro della catasta è costituito da uno o tre supporti di legno, di norma tronchetti tagliati di recente con le cime ancora con il fogliame verde. Secondo la tradizione, la catasta doveva contenere un intreccio di fogliame, frasche, fascine e da quant’altro era residuale dai lavori e dalla pulizia dei campi, nello specifico quelli con le colture di farina e del vino. In realtà, in quelli odierni il materiale per allestimento è piuttosto vario ed è possibile scorgervi materiali, per lo più di pulizia dei fossati e dei campi, nonché di scarto, tra i quali resti di pallet o semplici cassette di legno.
Sopra la pira viene posizionato il fantoccio della Striga, fatto dai bambini con sacchi imbottiti da cartocci del granoturco, fieno e pezzi di canne. Anch’esso è denominato diversamente da località in località: la “marantega”, la “vecia” o la “striga” sono solo esempi fra i molti. Questo grottesco bambolotto dalle fattezze uscite dal mondo delle fiabe simboleggia l’elemento sacrificale dell’anno trascorso e di tutto ciò che era stato negativo e il suo rogo costituisce l’epilogo del rito, dalle cui ceneri prenderà vita una stagione ricca di messi.

Dopo la benedizione con l’acqua santa della catasta, si procedeva all’accensione del fuoco con delle pietre focaie. Di solito la mano era quella del parroco o dell’anziano più autorevole della famiglia più influente del paese, non di rado la più ricca. Mentre i più osservano il fuoco, ascoltando il suo crepitio e, allo stesso tempo, annusandone l’odore, gli anziani cercano nelle faìve, le faville, e nel fumo le previsioni, i “pronosteghi”, per l’anno appena cominciato. Bene, se le faville si spargono verso una determinata posizione, profetizzando un’ottima annata per i raccolti. Male, se, invece, le scintille prendono la via opposta. La stagione agricola sarebbe stata magra.

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A prima vista si potrebbe bollare tutto ciò sotto un semplice rito divinatorio, con tanto di riverenza e superstizione. Invece, tali previsioni reggono un sapere popolare che nulla a che spartire con la magia, dato che esprimeva il ruolo dei venti nell’apporto della pioggia o di tempo asciutto. Dalla rosa dei venti, particolare attenzione viene posta per il vento di libeccio, vento con direzione sud ovest, chiamato dai “veci” “Garbin”, apportatore di pioggia, cosa buona per la preparazione dei campi.

Nella confusione, grida di gente che viene e va e canti, quasi tutti con il naso all’insù, le massaie sono alle prese con la “pinza”, che viene distribuita dalle giovincelle del paese. La ricetta del dolce varia da località a località, ma in linea generale la pinza è un dolce piuttosto sostanzioso, fatto con la farina gialla di granoturco e frumento, con fichi secchi, uva passa, semi di finocchio, noci, mandorle, pinoli e altro ancora. Alla pinza viene abbinato il vin brulé, vino nuovo, riscaldato, con l’aggiunta di fettine di limone o mele, cannella, chiodi di garofano e un po’ di zucchero.

Questa usanza popolare di inizio anno, che si pone a metà tra il sacro e il profano, sembrava aver perso il proprio smalto nei decenni scorsi, ma, a quanto pare, le nuove generazioni appaiono aver riscoperto il mondo delle antiche credenze e dei riti della società rurale millenaria, che era ancora patrimonio e sentire comune fino a non molto tempo fa.

Una poesia, che si articola tra canti beneauguranti accompagnati da un “goto de vin brulé” e da un “toco de pinsa”, rievoca a pieno titolo l’importanza del momento di unione e ritrovo della comunità, in questo caso di Solighetto, in provincia di Treviso, nei primi decenni del ‘900.

La bubarata

No te one fat ‘na bela bubaràta
anca ‘sta olta,
an bel panevìn,
in mèdo ala piàtha,
anca sentha le legne de Meotìn,
co’ roe, cane, fassìne e spin!

Col piovan disòn su avemarie
e po cantòn le litanie
e vardòn le bulìfe ‘ndar in su,
rebaltade co’ la forca,
e pèrderse inte ‘l scur del blù.
Che ciàro no’ te fali
tuti ‘sti foghi in giro
par borgade e par contrade,
par le rive e par le spianade!
El par che ‘l cuèrt del celo
se sie realtà in do,
che i feralét dele stele
i sìpie cascà
a s’ciarir qua e là la tèra.
Cussita, lori, i re Magi
pol catàr el Fiol del Signor,
viajar siguri drioghe ala cometa,
sentha pèrderse, sentha incianparse.

Intant che ‘l fogo s’ciopetéa
e la dènt canta e ciacoléa,
“Bontà!… Sanità!… E pan e vin…!”
tu sent thigar ogni tant.
E tuti po’ a vardar in su;
va-lo el fun a sera o a matina,
pien caliera o polenta pochetina?

E i quatro in thima al canpanil,
quasi scotàdi, starnudìss,
infumegàdi,
varda-do e sùbia in rima:
“Che sestàt ‘sta dènt no fa-la
che atorno al fogo canta e bala!
Eli cristiani che diss su orathion
opuro indiani che fa confusion?

Sergio De Stefani, Par nò desmentegar, 1999

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Cristina da Pizzano (1365 – 1430). “Seulete Sui”

Seulete sui et seulete vueil estre
Seulete m’a mon douz ami laissiee;
Seulete sui, sanz compaignon ne maistre
Seulete sui, dolente et courrouciee,
Seulete sui, en langueur mesaisiee,
Seulete sui, plus que nulle esgaree,
Seulete sui, sanz ami demouree.
Seulete sui a uis ou a fenestre,
Seulete sui en un anglet muciee,
Seulete sui pour moi de pleurs repaistre,
Seulete sui, dolente ou apisiee;
Seulete sui, rien n’est qui tant messiee;
Seulete suis, en ma chambre enserree,
Seulete sui, sanz ami demouree.
Seulete sui partout et en tout estre;
Seulete sui, ou je voise ou je siee;
Seulete sui plus qu’aultre riens terrestre,
Seulete sui, de chascun delaissiee,
Seulete sui durement abaissiee,
Seulete sui, souvent toute esplouree,
Seulete sui, sanz ami demouree.
Prince, or est ma douleur commenciee:
Seulete sui, de tout deuil manaciee,
Seulete sui, plus teinte que moree:
Seulete sui, sanz ami demouree.