Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenem…
Pubblicato il 11 Mag 2018 da vocidaiborghi
Da qualche giorno mi ero proposto di pubblicare qualche riga su uno dei monumenti rimasteci della Via Annia, l’antica strada romana che da Adria conduceva alla grande metropoli di Aquileia. Il manufatto, l’opera di ingegneria si trova a Ceggia, un piccolo comune del Veneziano a pochi chilometri da San Donà di Piave. Purtroppo, nel corso dei decenni le arature hanno in buona parte cancellato la possibilità di compiere delle ricerche stratigrafiche accurate, ma le scoperte fortuite e le fotografie aeree hanno permesso di ricostruire il contesto, nel quale trovava posto il ponte romano, risalente al I-II secolo d.C.. Dopo la sua scoperta, avvenuta nel 1949, nella tenuta agricola della famiglia Loro, quello che rimane del ponte, tra l’altro evidenziato nelle guide turistiche – cartacee e quant’altro -, sembrava aver trovato nuova vita. Oggi, sono ritornato per poterlo fotografare da una prospettiva diversa. Bramoso di pormi di fronte a lui- ogni volta che lo rivedo è come se rivedessi un amico col il quale ho una particolare intimità – il pranzo e il caldo di queste ore sono passati in secondo ordine. Lo confesso, la sola idea di far conoscere ai miei nuovi amici un antico amico mi emozionava e non poco. Minuti dopo, il tempo di parcheggiare la macchina e di fare quattro passi, non ho creduto ai miei occhi. Quello che avevo di fronte mi ha dir poco sconcertato. La fotografia che pongo in evidenza – quella sul titolo – è di qualche tempo fa, mentre quelle sottostanti sono attuali. Forse un collega irlandese, specializzatosi nelle civiltà italiche preromane, aveva ragione da vendere nella sua provocatoria affermazione, che noi italiani siamo indegni conservatori di un sì mirabile “lista di quei siti che rappresentano delle particolarità di eccezionale importanza da un punto di vista culturale o naturale” (Convenzione Unesco del 16 novembre 1972), riferendosi alla situazione della conservazione del patrimonio culturale, presente in ogni regione dello Stivale. Ad maiora.






Pubblicato il 7 Mag 2018 da vocidaiborghi
Il sistema viario romano aveva rappresentato l’ossatura principale della stessa irradiazione di Roma (Caput viarum) nell’orbis terrarum e, nello stesso tempo, aveva garantito l’efficienza dell’organizzazione amministrativa dello stato. Dopo il collasso dell’Impero, la rete stradale ne risentì in larga misura. Alcune vie sparirono per sempre, inghiottite dalla forza della natura; altre si confusero con tracciati di nuova costruzione; altre ancora, invece, sopravvissero alla fine dell’epoca antica. Intorno al Duecento, la ripresa degli scambi commerciali tra il Nord Europa e il meridione, oltre al vasto movimento dei pellegrinaggi, diede nuova linfa ai vecchi percorsi stradali, in particolare a quelli che attraversavano parte dei territori quella che era stata la “Decima Regio”, costituita dalla “Venetia et Histria”.
Nel corso del XII e XIII secolo, migliaia di pellegrini e commercianti attraversavano la pianura veneto friulana, provenendo da tutta Europa, e percorrevano un ordito stradale composto da tragitti principali e secondari, che s’incrociavano in corrispondenza di ponti o guadi sui corsi d’acqua. Buona parte dei viaggiatori si muovevano, orientandosi grazie alle copie degli Itinerari, che riportavano i percorsi, le distanze tra le località di una certa importanza e i luoghi di sosta. Di queste carte stradali ante litteram vi era l’Itinerarium Antonini Augusti (un itinerarium adnotatus, comprendente un elenco di stazioni e di centri stradali con le relative distanze, datato al III-IV secolo d.C.);l’Itinerarium Burdigalense (altro Itinerario adnotato, redatto da un anonimo pellegrino, che, intorno al IV secolo, descrisse il suo viaggio dalla città di Bordeaux alla Terrasanta); e, per ultima, la Tabula Peutingeriana (copia medioevale di un documento geografico sempre del IV secolo, che raffigura il sistema viario romano mediante itinerari disegnati e colorati). A questi si aggiunsero la “Cosmographia” dell’Anonimo Ravennate, databile al VII secolo, e gli “Annales Stadendes auctore Alberto” del XIII secolo. Senza poi contare i diari di viaggio, scritti dai pellegrini, che avevano affrontato con successo il viaggio verso le terre dell’Antico e del Nuovo Testamento. Pertanto, non fu un caso se gli Ordini religiosi, compresi quelli militari, si trovarono a porre dei propri insediamenti in queste terre, atti ad accogliere e rifocillare i pellegrini sempre più numerosi; e, peraltro, capaci di produrre l’eccedenza agricola dal normale fabbisogno, permettendo la trasformazione dei beni in natura in denaro sonante, che largo peso trovava nella logistica nella guerra in Terrasanta.
L’insediamento templare di Tempio di Ormelle può dirsi paradigmatico a questo riguardo. Sorto sulla piana alluvionale del Livenza e della Piave a pochi chilometri dall’antica Opitergium, l’odierna Oderzo in provincia di Treviso, esso si trovava a vista d’occhio sulla via Postumia, l’opera consolare del II secolo a.C. che da Genova conduceva ad Aquileia, e la Via Opitergium Tridentum, attraverso la quale si raggiungeva la Valsugana e, quindi, Trento (Tridentum). Per di più delle vie d’acqua permettevano l’acceso al mare Adriatico.
Le fonti sulla fondazione del nucleo templare non sono del tutto utili per riempire il vuoto delle prove materiali. Di solito, l’horror vacui si suole superare con la “Storia degli Ecelini, Codice Diplomatico Eceliniano” (1779) dell’erudito Giovanni Battista Verci. Nella ricostruzione della vita di Ezzelino I detto il balbo, l’autore afferma che il nobiluomo, di ritorno dalla Seconda Crociata, ricevette dal Patriarca di Aquileia beni e possedimenti nel contado di Villa di radio (l’attuale Rai), piccolo borghetto a pochi chilometri da Ormelle, nella cui giurisdizione territoriale si ricordava una chiesa intitolata a santa Lucia dei Templari.
La cronaca continua, ricordando che il crociato, forse ancora memore della confessione sul Santo sepolcro, ritenne di lasciare questi beni agli ordini monastici del territorio, favorendo di fatto anche gli stessi templari, che eressero il loro insediamento a Tempio. In effetti, Ezzelino I, per meriti acquisiti in Terrasanta, ricevette in feudo i castelli di Mussolente, Oderzo e Maser dai vescovi di Feltre e Belluno, così come ricevette dal patriarca di Aquileia i possedimenti lungo il corso del Piave. Per quanto possa essere suggestiva una tale donazione, tuttavia la notizia va letta con tutte le cautele del caso. Appare alquanto sospetto che il Patriarca di Aquileia potesse disporre delle proprietà dell’Ordine Templare, attestate e definite dalla Chiesa di Santa Lucia dei Templari; peraltro quest’ultima scomparsa senza lasciare alcuna traccia. E, infine, anche se volessimo dare credito alla notizia, allora non si capirebbe l’esigenza di erigere un nuovo insediamento a poca distanza da uno di una certa rilevanza, dato che “la presenza di una cappella segnala l’importanza della casa come capoluogo della commenda” (Demurger A., I Templari, un ordine cavalleresco cristiano nel Medioevo, 2006, p. 165).
L’assenza di fonti primarie impedisce, dunque, di definire con esattezza il periodo in cui i Cavalieri Templari si stabilirono a Tempio. Il primo vero e proprio documento che ne attesta la presenza storica risulta un contratto livellario (forma medioevale di concessione di terreni agricoli a determinate condizioni) del 1178. Per quanto sia una testimonianza documentaria incidentale, tuttavia permette l’abbozzo di un primo ritratto delle origini.
Tra i testimoni del contratto, compare Vitalis da Templo, che indirettamente tramanda il toponimo con il quale era conosciuto l’insediamento (Cagnin G., I Templari e Giovanniti in territorio trevigiano, secoli XII-XIV, 1992, p.13). Ben più significativi risultano i documenti successivi. Nel 1184 si ricorda la “mansionis Templi” (da Masòn luogo di sosta per i pellegrini) o “Domus de Campania” (Cagnin 1992, p. 14 e 86), mentre nel 1304 è ricordato di nome di “Templo de Campanea” (Cagnin 1992, p.86). Infine, documenti coevi, ricordano la dedicazione della chiesa a Santa Maria de Campania.
Altro vuoto documentale si riferisce all’impianto originario dell’insediamento templare. Esistono delle rappresentazioni cartografiche, ma sono piuttosto sommarie. Una prima descrizione analitica è offerta da un Cabreo del 1788, di qualche anno antecedente delle demolizioni effettuate tra il 1810 e il 1841.
Lo stanziamento è rappresentato come un’entità urbanistica ben distinta dall’ambiente circostante. Delle mura lo chiudono su tre lati, mentre il lato sud – est è cinto da due corsi d’acqua, il Lia e il Piavesella. Le strutture architettoniche sono visibili e riconoscibili: la chiesa con il portico e la sacrestia, il cimitero, la stalla e il fienile, la casa Dominicale con il granaio e la cantina, infine gli spazi destinati alla coltivazione; per ultimo, è rappresentato il ponticello che attraversa il Piavesella. Comunque sia, il Cabreo preso in considerazione offre uno spaccato dell’esistente durante il XVIII secolo, quando la precettoria (struttura base dell’organizzazione templare) era del tutto volta alla gestione agricola delle proprietà giovannite.

Gli scavi archeologici compiuti negli ultimi anni non hanno posto la parola fine al quesito se questi edifici giovanniti siano sorti sopra delle strutture preesistenti, per cui nulla autorizza a pensare che queste strutture trovino un precedente all’epoca templare. Di contro, molti studiosi locali, invece, vi riconoscono l’impianto templare originario, sulla scorta degli studi compiuti sugli insediamenti europei, soprattutto spagnoli e francesi.
“Il convento rurale per lo più è una semplice casa fortificata, in cui l’aspetto militare scompare per lasciare spazio alle funzioni religiose ed economiche: le mura, i fossati che talvolta lo circondano hanno la sola funzione di difesa dal brigantaggio e dai pericoli. Talvolta la torre di un castello preesistente è servita come nucleo per il nuovo edificio; in altri casi è una creazione ex nihilo. Il complesso degli edifici è disposto a forma di L o attorno ad una corte alla quale una porta monumentale può consentire l’accesso. Granai, dispense, fienili, alloggi del commendatore e dei fratelli (dormitorio, refettorio), sala capitolare e cappella sono disposti ai lati della corte”. (Demurger A, op. cit. p. 165).
Di certo, si può affermare che all’interno delle sue mura non si ascoltarono il calpestio delle turme di cavalieri in assetto di guerra e neppure si sentì il fragore delle armi in allenamento. Qui i monaci templari, vestiti della sola veste bianca, trascorsero le loro giornate come i più semplici cistercensi, legati alla recita delle ore e alla celebrazione della messa; per quanto, meno legati all’ascesi monastica tradizionale, come ad esempio per i pasti. Durante la settimana mangiavano due volte al giorno, tranne il venerdì, che osservavano il digiuno, ovvero ci si limitava al solo pasto diurno. Nelle ciotole veniva servita la carne per tre volte alla settimana, mentre nei rimanenti giorni le pietanze erano costituite da legumi e farinacei vari.
Un inventario, redatto nel 1310, registrò all’interno della Chiesa un gonfalone con le insegne dell’Ordine. Il che fece pensare che si trattasse del famoso “Beauceant”, lo stendardo di forma rettangolare verticale, suddiviso in due bande, una bianca e una nera. In realtà, il vero e proprio gonfalone era conservato nella residenza del Gran Maestro, per cui il vessillo in questione doveva trattarsi di uno di quelli in dotazione alle case più importanti. Curioso, a questo riguardo, risulta un brano raccolto dall’ecclesiastico Telesforo Bini. Nel suo “De Tempieri e del loro processo in Toscana” (1845), l’autore ricorda Giovanni de Castellarquato, comitatus di Piacenza, precettore di Campanea e comitatus di Treviso. Nel 1296, nel corso del Capitolo generale di Bologna, dei testimoni lo videro adorare il simulacro del Bafometto. A parte la solita accusa, studiata a tavolino, la notizia risulta importante, poiché evidenzia l’importanza della mansione di Tempio di Ormelle, dato che il suo precettore aveva partecipato al Capitolo.
L’economia che caratterizzò la precettoria si basò fin dai primi anni della sua esistenza non solo sull’autoconsumo, ma anche sulla produzione estensiva, tanto che una buona parte poté essere destinata al commercio nelle vicine fiere o nell’ambito delle strette relazioni, che legavano le case templari.
I cerali, per lo più orzo, segale ed avena, erano uniti alla coltivazione delle leguminose e verdure su larga scala, anch’esse coltivate in campo aperto. Per analogia con le altre case templari, è probabile che il territorio agricolo fosse suddiviso in quattro grandi appezzamenti, più o meno ortogonali, ciascuno dei quali destinato alla singola coltivazione. All’interno trovavano, invece, posto gli orti e gli alberi da frutto per la mensa comune. La necessaria irrigazione e l’industria molitoria furono assicurate dalla sistemazione idraulica dei corsi d’acqua vicini.
Il periodo d’amministrazione giovannita coincide con il periodo di decadenza della magione, tanto da registrare un solo prete, pagato dall’Ordine di Malta, per attendere alla Chiesa, che, fra l’altro, perse l’antica intitolazione alla Vergine, assumendo la dedicazione a San Giovanni Battista (1777).
I decreti napoleonici del 1797 disposero la requisizione dei beni di Tempio di Ormelle e furono messi all’asta. Il complesso fu acquistato da un tal Gasparo Moro di Oderzo, assieme a tutte le proprietà del Priorato tra il Piave e il Livenza. Nel 1798, il Governo Austriaco restituì i beni al Priorato, ma fu solo un breve luccichio, poiché qualche anno dopo, nel 1808, fu confermata la vendita al Moro; e con ciò la precettoria templare giovannita concludeva la sua storia.
L’unico edificio che riporta le origini templari è la Chiesa. Il suo impianto è romanico, caratterizzato da un’unica navata con asse longitudinale est ovest, che si conclude con le tre attuali absidiole, la più grande delle quali è la centrale.
L’abside centrale è di recente costruzione (1923), mentre al 1955 risalgono i lavori compiuti sul transetto e sulle absidi laterali, nonché sulla sacrestia. Anche la torre campanaria, eretta su ampia porzione della facciata, e il porticato, che si sviluppa nei lati sud ed ovest, risalgono a periodi successivi a quella templare. Nel ‘700 furono inseriti nei pilastri del sottoportico sette tondi in pietra con croce giovannita iscritta. Le croci templari, invece, sono visibili tra gli archetti pensili sotto la grondaia dell’aula.

La Chiesa possiede un piccolo tesoro, per quanto sbiadito dal tempo, ed è rappresentato da un ciclo di affreschi -alcuni dei quali risalenti al periodo templare – che la tappezzavano sia all’esterno che all’interno.
In linea di massima, si distinguono tre distinte fasi esecutive. La prima, la più antica, forse del XII-XIII secolo, occupava tutta la superficie muraria esterna e riportava dei semplici elementi decorativi e testi in rosso su fondo bianco.

Allo stato attuale delle cose, la lettura appare difficile e si ferma solo su poche lettere. Tra il XIII e il XIV secolo buona parte di questi affreschi fu ricoperta con gli episodi del Nuovo Testamento e dalla “dormitio Virginis”.

Ad onor del vero, alcuni storici (G. Curzi, la pittura dei Templari, 2002, p. 74) collocano gli affreschi “a una data non anteriore alla metà del XIV secolo, che esclude il riferimento, pure avanzato, ai fondatori dell’edificio”. Infine, il terzo ciclo con il San Cristoforo (XIV-XV secolo) della facciata e successivamente la Madonna in trono (XVI secolo)

e la Crocifissione con la Maddalena dolente (XVIII secolo).

Pubblicato il 29 Apr 2018 da vocidaiborghi
VII.
Ben so che la beltà ch’al mondo piace
È fior caduco e di superbia abonda;
Ma de la spoglia fral che mi circonda,
Qual si sia, stima in me l’alma non face.
Per più nobil desìo mio cor si sface,
Baldassare, ond’ardita e sitibonda
Quel fonte cerco, onde stillar suol l’onda
Che rende ai nomi altrui fama verace.
Né cercar dee altro Fonte od altro Rio
Chi di lasciar immortalmente viva
La sua memoria al mondo ha pur desìo.
Ché s’a far l’alma in Ciel beata arriva
Onda, che bagni il volto o ‘l petto mio,
Di lacrime versar non sarò schiva.
Ben so che la beltà ch’al mondo piace, Manifesto di Sarra Copia Sulam hebrea … in Venetia, MDCXXI, Appressi Ioanni Alberti, p. 26
VIII.
O di vita mortal forma divina,
E dell’opre di Dio méta sublime,
In cui se stesso e ‘l suo potere esprime,
E di quanto ei creò ti fè Reina;
Mente che l’uomo informi, in cui confina
L’immortal col mortale, e tra le prime
Essenze hai sede, nel volar da l’ime
Parti là dove il Cielo a te s’inchina:
Stupido pur d’investigarti or cessi
Pensier che versa tra caduchi oggetti,
Che sol ti scopri allor ch’a Dio t’appressi.
E per far paghi qui gl’umani petti,
Basti saper che son gl’Angeli stessi
A custodirti e a servirti eletti.
O di vita mortal forma divina (Manifesto … cit., p. 27)
IX.
Amai, Zinan, qui il ben d’ogni ben mio,
Ma l’amo or più, che sta beato in Cielo,
Perché spogliato del terren suo velo
Fatt’è più bel ne la beltà di Dio.
E crescendo l’amor, cresce il desìo
Di gire a lui con più devoto zelo,
Chè dove non può entrar caldo né gelo,
Se speri tu d’entrar, no ‘l despero io.
E se tu aspiri a uscir di man di morte
Co’l favor de le Muse, io porre il piede
Con maggior forza ne l’eterna stanza.
Chè s’apre la virtù del Ciel le porte,
De le virtù d’Anselmo io fatta erede,
D’andarlo ivi a goder prendo speranza.
Amai, Zinan, qui il ben d’ogni ben mio, G. Zinano, Rime diverse, in Opere di poesia, Venezia, Deuchino, 1627, p. 47
X.
Quasi a coturno die’ materia in scena
Quella, onde pur ritorsi empia procella;
Quel domestico mostro, Idra novella,
Dai cui toschi campata spiro a pena.
La fé ch’ebbi in uom vile empia sirena
Fu, ch’affascinò l’alma: o cielo, e quella
Lingua, ch’estinta ravvivai: poté ella
Congiura ordir, di sì empi fili piena?
Ma s’in animo ingrato allor perisce
Che nasce il beneficio, non migliore
Frutto da simil pianta si deriva.
Serva donque il mio esempio a chi nodrisce
L’angue nel seno e ne lo snidi fuore
Pria che lo asperga di rabbia nociva.
Quasi a coturno diè materia in scena, Codice di Giulia Soliga, Fondo Cicogna del Museo Correr di Venezia, n. 270, c. 14r.
Pubblicato il 22 Apr 2018 da vocidaiborghi

Pubblicato il 17 Apr 2018 da vocidaiborghi





Pubblicato il 7 Apr 2018 da vocidaiborghi
Di san Marco non si conoscono che pochi dati sicuri, per lo più desunti dai testi degli Atti degli Apostoli e delle Lettere apostoliche. Nato a Cipro, o in Palestina intorno al 20 d.C., Marco discendeva da una famiglia sacerdotale di Gerusalemme e si sa che era cugino del levita cipriota Barnaba (Lettera ai Colossesi 4,10). Il primo ricordo su Marco avviene con la liberazione di Pietro dalla prigione di Erode: “Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera” (Atti 12, 12). Quindi Marco possedeva due nomi: uno gentile ed uno ebreo, Giovanni. Un episodio riportato dal suo Vangelo fa ritenere che egli abbia avuto modo di conoscere Gesù: “Un giovinetto però lo seguiva, rivestito soltanto da un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo” (Marco, 14, 1.51.52). Marco fu compagno di Barnaba e Paolo nella prima missione apostolica nell’isola di Cipro, ma si separa presto da Paolo, che non prende bene questo abbandono. Gli Atti degli Apostoli riferiscono che in seguito Paolo si dichiarò contrario a che Marco partecipasse ad un ulteriore viaggio (Atti, 13, 13). Barnaba che prese le difese del cugino, si separò da Paolo e partirono per Cipro (Atti 15,37.41). Marco, successivamente, figura nella cerchia di Pietro, a Roma.
Operò a Roma e finì coll’essere ripreso da Paolo: “Affrettati a venire da me al più presto…Solo Luca è con me. Prendi Marco e conducilo con te perché mi è utile per il ministero” (II a Timoteo 4,9 – 11).
La tradizione che gli attribuisce il secondo dei Vangeli sinottici è attendibile e risulta essere il più antico resoconto giunto sulla vita di Gesù, anche se non riporta genealogie; tanto meno i racconti sulla nascita e dell’infanzia di Gesù.
Esso comincia direttamente con il ministero di Giovanni Battista, il battesimo e le tentazioni di Gesù. Stando alla testimonianza del padre della Chiesa Clemente di Alessandria, vissuto nel III secolo, il Vangelo di Marco sarebbe stato redatto a Roma tra il 63 e il 64 d. C.. Il testo si compone di sedici capitoli, i primi otto dei quali s’imperniano sui miracoli di Gesù, mentre i rimanenti, indugiano sui discorsi del Maestro, sulla sua Passione e sulla sua Morte.
Il Vangelo fu redatto per lettori non ebrei. La lingua adoperata, greco ellenistico – secondo la parlata popolare – e lo stile vivace e spigliato, lo rendono immediato nelle espressioni e nelle immagini, quindi leggibile da un’ampia comunità; e, forse, rispecchiava la catechesi di Pietro. A Roma “i fedeli che ascoltavano la predicazione di Pietro pregarono Marco di metterla per iscritto per serbarne perpetua memoria: cosicché questi fedelmente scrisse quanto aveva ascoltato dalla bocca di Pietro. Pietro esaminò con cura lo scritto del suo discepolo e trovandolo in tutto conforme a verità lo approvò e permise che fosse diffuso tra i fedeli” (Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, cap. 59).
La tradizione ecclesiastica, sulla sorta della testimonianza di Eusebio, storico della chiesa, fa risalire la leggendaria fondazione della Chiesa alessandrina all’Evangelista, divenendone il primo vescovo. Dopo un periodo di assenza, vi sarebbe morto martire, legato e trascinato per le strade della città fino a morirne.
Il corpo di Marco fu deposto all’interno di un sepolcro nei pressi della località di Bucoli, un villaggio sulle rive del mare vicino ad Alessandria, che a partire dal III° secolo divenne un vero e proprio Martyrion – chiesa sulla tomba di un martire – tra i più venerati del mondo cristiano e una delle mete privilegiate dei pellegrinaggi.
Intorno all’VIII° secolo fiorì una leggenda, secondo la quale Marco, su incarico di Pietro, avrebbe creato anche il vescovado di Aquileia, investendo Ermagora (un cristiano della prima ora), quale primo vescovo, prima di rimettersi in viaggio per Alessandria.
Pietro…vedendolo costante nella fede lo mandò ad Aquileia dove Marco predicò la parola di Cristo ottenendo innumerevoli conversioni; si conserva ancora oggi nella chiesa di Aquileia con somma devozione un Vangelo che si dice scritto dalla mano stessa di Marco. Costui in seguito condusse a Roma un cittadino di Aquileia, Ermagora, da lui stesso convertito e Pietro lo consacrò vescovo della città. Ermagora fu ottimo vescovo; infine, imprigionato dagli infedeli, coronò la propria vita al martirio (Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, p. 272).
Andrea Dandolo, nella sua Chronica del 1350, racconta che, nel corso del viaggio verso Roma, Marco ed Ermagora furono sorpresi da una terribile tempesta. Rifugiati in quello che sarebbe divenuto il bacino di San Marco, i due aspettarono che il tempo desse tregua. Nel frattempo, un angelo apparve a Marco. Gli predisse che il suolo calpestato dai suoi piedi avrebbe dato vita ad una grande città con un grande tempio, nel quale si sarebbe conservato il suo corpo: Pax tibi Marce evangelista meus; Hic requiescet corpus tuum, affinché fosse venerato da tutto il mondo cristiano.
Nel Medioevo, come d’altra parte per tutti i resti sacri della cristianità, vere o presunte, le reliquie di Marco assunsero un ruolo politico di non trascurabile importanza, soprattutto nel grande contrasto, che vide fronteggiarsi il patriarcato di Aquileia con Grado e Venezia.
I Veneziani, minacciati dall’accerchiamento dei Franchi e dal patriarcato di Aquileia e dalla mal tollerata linea subordinata verso Costantinopoli, idearono un vero e proprio blitz, che avrebbe provocato l’indipendenza ecclesiastica dello stato lagunare, malgrado il sinodo provinciale dell’827, avvenuto a Mantova, dove i vescovi di Belluno, Brescia, Ceneda, Cittanova d’Istria, Concordia, Feltre, Padova, Pédena, Pola, Trento e Trieste espressero il proprio omaggio devoto alla chiesa madre di Aquileia, attestando la propria identità nelle radici e nella storia del Patriarcato di Aquileia, che si rifacevano a San Marco stesso. Pertanto, chi avesse avuto la possibilità di esibire le reliquie dell’Evangelista, avrebbe potuto avanzare più di una pretesa sulla successione ecclesiastica, la cui legittimità non avrebbe trovato alcun contrasto. Venezia lo capì bene e diede il via alla Translatio Sancti Marci, ovvero alla traslazione o al trafugamento dei resti di San Marco.
La Translatio ebbe luogo tra l’827 e l’828, durante il dogado di Giustiniano Partecipazio; e il suo resoconto, o meglio, la sua leggenda si fonda per lo più sulle opere di Giovanni Diacono (Chronica) e di Andrea Dandolo (Chronica per extensum descripta). Il testo presenta delle sequenze ben definite. La prima, è riassumibile nel pericolo dei Saraceni, che ormai sono un vero pericolo per tutte le terre affacciate sul Mediterraneo, compresa l’antica Alessandria, dove giace il corpo di San Marco. L’empietà del principe saraceno che voleva costruire la propria reggia, utilizzando i marmi e le colonne delle chiese d’Alessandria, costrinse i “Veneticis negotiatoribus” ad intervenire. Bono di Malamocco e Rustico di Torcello, tra l’altro devotissimi del santo, erano stati spinti, loro malgrado, ad Alessandria da venti impetuosi.
I Veneziani convincono i locali monaci ad aprire il sepolcro di Marco. Il corpo era “undique circumdatum clamide syrico et positum resupinum, habens e capite usque ad pedes sigilla imposita per ea loca quibus ora eiusdem clamidis desuper iungebatur (Mc Cleary, Note storiche ed archeologiche sul testo della “Translatio sancti Marci, pp. 255, nn. 14-19).
Dopo di che, scambiato il corpo di Marco con quello di una santa – santa Claudia –, lo pongono in una sacca, ricoprendolo di “carnes porcinas”, provocando lo sgomento delle guardie daziarie saracene, che scapparono all’istante, sputando e urlando “canzir canzir”, ovvero “porco porco”, senza che guardassero che cosa effettivamente vi fosse dentro. Aiutati da eventi miracolosi, i veneziani e i monaci, autori manuali del trafugamento e degni testimoni – per l’eventuale incredulo – dell’autenticità della reliquia, s’imbarcarono con rotta verso la città lagunare. Arrivati a Venezia, il corpo di Marco fu accolto dal vescovo di Olivolo, Orso, ma fu conservato dal duca “in cenaculi loco qui apud eius palatium usque ad presens tempus monstratur” (Mc Cl. P. 26,1 nn 6-7).
In Andrea Dandolo, infatti, si legge in sommi capi:
“Nel secondo anno del doge Giustiniano il corpo di San Marco Evangelista fu recato da Alessandria d’Egitto a Venezia. Le cose andarono come segue. Il califfo dei saraceni aveva disposto l’erezione d’un magnifico palazzo in Alessandria, e poiché mancava il materiale di costruzione necessario allo scopo, fu dato l’ordine di rimuovere dalle chiese cristiane d’Egitto le colonne di marmo e metterle a disposizione della nuova fabbrica. L’ordine suscitò orrore e disperazione fra il clero egiziano. Proprio in quell’epoca si trovavano in Alessandria due eminenti personalità dedite al grosso commercio, i tribuni Bono di Malamocco e Rustico di Torcello, che, nonostante il divieto emanato da qualche anno, avevano attraccato con tre navi cariche d’ogni bendiddio nel porto di Alessandria, dove li aveva spinti una forte burrasca. Durante il soggiorno egiziano gli equipaggi facevano abitualmente le loro devozioni nella chiesa di San Marco, in cui era custodito il corpo di quest’ultimo. Un giorno si recarono nella chiesa anche Bono e Rustico, e vi trovarono due uomini di chiesa, il monaco Stauracio e il presbitero Teodoro, entrambi greci, in grande ambascia; ne chiesero loro la causa e vennero a sapere dell’ordine del califfo.
Allora dissero i veneziani: “Il prezioso tesoro che avete nella vostra chiesa è in gran pericolo d’esser profanato e malamente adoperato dai Saraceni. Consegnatolo a noi, e noi sapremo fargli l’onore che esso merita. Né la riconoscenza del nostro Doge mancherà di recarvi gran frutto”.
Persuasi dalle argomentazioni dei veneziani, i due ecclesiastici finirono coll’acconsentire; ma per prima cosa era necessario eludere la sorveglianza tanto dei cristiani d’Alessandria quanto dei doganieri saraceni. I cristiani furono imbrogliati dall’astuzia dei veneziani e dei loro due compari greci, che nella tomba dell’evangelista deposero il corpo di un altro santo, mentre i doganieri furono ingannati ponendo al sommo della cassa contenenti le sacre reliquie prosciutti e altra carne suina, cioè, com’è noto, cose che facevano orrore ai Saraceni come pure agli Ebrei. Allorché, nella stazione di dogana, fu aperta la cassa, i funzionari si misero a urlare: “canzir, canzir!(maiale)”, parola che esprime certamente ripugnanza e orrore, e senz’altro autorizzarono il carico. Bono e Rustico recarono felicemente il loro tesoro a Venezia.
In altri racconti la storia della traslazione viene arricchita con motivi più meravigliosi e drammatici; con delle varianti notevoli, quali il costo del trafugamento fissato a cinquanta zecchini o la rimozione del corpo dal sarcofago.
Durante il viaggio di ritorno, grazie all’intervento di San Marco, le navi veneziane poterono arrivare a Venezia, sfuggendo alle numerose tempeste, che erano imperversate sul mare, o alla rabbia diabolica del demonio.
“Durante la navigazione i mercanti rivelarono all’equipaggio di un altro battello che stavano trasportando a Venezia il corpo di San Marco. Disse uno dei marinai: “Può darsi che gli egiziani vi abbiano dato un corpo qualsiasi invece che quello di San Marco”. Ma ecco che la nave che portava le sacre reliquie, con meravigliosa velocità si diresse contro la nave dove si trovava il predetto marinaio, la colpì nel fianco e certamente l’avrebbe fatta a pezzi se tutti i marinai non avessero unanimemente esclamato di credere che si trattava del vero corpo di San Marco. Poco dopo, durante una tempesta, mentre la nave correva nell’oscurità e i naviganti avevano perduta la giusta direzione San Marco apparve ad un monaco preposto alla sua custodia del suo corpo e gli disse: “Dì a questi naviganti che abbassino le vele perché la terra è vicina!”. I naviganti abbassarono le vele e, al far del giorno, si videro vicini ad un’isola…Un marinaio incredulo fu afferrato e tormentato da un demone fino a che, in presenza del santo corpo, non dichiarò la sua fede. Una volta liberato dallo spirito immondo il marinaio ringraziò Iddio ed ebbe grande venerazione per San Marco (Jacopo da Varagine, op. citata).
Nella facile fase di attracco a Olivolo, sede del vescovo di Rialto, i nocchieri non riuscivano a toccare terra. Sembrava che fosse lo stesso Evangelista a non volerlo, per cui si mossero alla volta della residenza del doge. Qui accolti dal giubilo del popolo, le reliquie furono consegnate a Giovanni Partecipazio. Il quale, dopo aver assolto i due rei di aver commerciato con i saraceni, fece riporre i resti di Marco all’interno della sua residenza. Il diacono Giovanni narra che il Doge “fece allestire in un angolo del suo palazzo una cappella in cui sistemò le spoglie di san Marco, in attesa che fosse costruita una chiesa apposita. Sennonchè la morte, sopravvenuta di lì a poco, gl’impedì di recare a termine la chiesa in questione”.
Il primo canonico, con prerogative episcopali, fu incaricato allo stesso monaco alessandrino Stauracio, che aveva aiutato i veneziani nel trafugare le reliquie e, dall’altro, rimaneva sempre un autorevole testimone dell’autenticità delle reliquie.
Ad esser certosini, nel resoconto offerto dalla “translatio” di storico vi è ben poco.
Di certo si può dire che durante il dogado di Partecipazio, dei veneziani trafugarono delle reliquie da Alessandria, che gli stessi vollero identificare in quelle dell’Evangelista. La cosa importante consisteva nel fatto che tutti credessero che a Venezia vi fossero i resti di Marco, che avrebbe sostituito il patrono San Teodoro, santo greco. Il fatto poi che la sacra reliquia sia stata custodita dal doge e non dal vescovo fa ipotizzare che il trafugamento altro non sia stato che ordinato dallo stesso doge; e tale lettura viene avvalorata dal testamento di Partecipazio, che affidava alla moglie Felicita il compito di edificare una basilica a san Marco, nell’area di San Zaccaria.
De corpus vero beati Marc(ci Felicita), uxori mee, (volo) ut hedificat basilicam ad suum honorem infra teritorio Sancti Zacharie (SS: Ilario e Benedetto e S. Gregorio, a cura di L. Lanfranchi – B. Strina, Venezia 1965, pp. 17-24). Ancora, si legge: De petra, que habemus in Equilo, compleatur hedifficia monasterii Sancti Illarii. Quicquid exinde remanserit de lapidus et quicquid circa hanc…iacet et de casa Theophilato de Torcello hedifficetur baxilicha beati Marci Evangeliste, sicut supra imperavimus.
Il testamento di Partecipazio appare, quindi, quale naturale epilogo della trama voluta dalla “translatio sancti Marci”, che, attraverso quadri ben definiti, associa l’Evangelista al ducato rivoaltino.
Giovanni Partecipazio I, successore e fratello di Giustiniano, intraprese nell’829 i lavori della basilica nell’area della basilica attuale e, forse, già nel 836 poteva dirsi completata in larga misura. Nello stesso anno, le reliquie furono poste al suo interno e, cosa determinante, la chiesa non servì da cattedrale per il vescovo, ma da cappella del doge, ovvero come tempio di Stato.
Il potere del doge, infatti, derivava da Dio tramite l’evangelista Marco, come dimostrano le insegne di cui si fregiava: la spada, la sella e il baculus (A. Pertusi, Quedam regalia insignia, Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, in “Studi Veneziani”, VII, 1965, pp. 3-123).
“Il corpo del santo fu collocato in una colonna di marmo ed il luogo della sepoltura fu rivelato a pochi; ora accadde che, morte queste poche persone, non si sapeva più dove fosse sì prezioso tesoro (Jacopo da Varagine, op. citata); e dopo l’incendio che aveva distrutto la basilica di San Marco nel 976, le reliquie dell’Evangelista si persero. Nel 1094, in coincidenza con l’inaugurazione del nuovo tempio sul modello dell’Apostolion di Costantinopoli, grande era “il pianto del clero e la desolazione fra il popolo: si temeva anche che il corpo dell’illustre patrono fosse stato furtivamente rapito. Fu indetto allora un solenne digiuno ed una processione ancor più solenne, ed ecco che, sotto gli occhi stupiti della folla, cominciarono a cadere le lastre marmoree della colonna ed apparve la cavità dove era stato racchiuso il corpo santo” (Jacopo da Varagine, op. citata). La miracolosa rivelatio dei resti dell’Evangelista, che furono rinvenuti nel pilastro che oggi si trova a sinistra dell’altare del sacramento, avvenne il 25 giugno; e quel giorno fu dichiarato “festa di palazzo”, a significare la gioia riconoscente dell’intero regime per ritrovato patrocinio (M: Muraro, Il pilastro del miracolo e il secondo programma dei mosaici marciani, in “Arte veneta” XXIX, 1975, pp. 60 e G. Cracco, Venezia nel Medioevo, 1986).
Da allora, San Marco l’Evangelista arrivò a identificarsi con lo spirito stesso del ducato.
Sebbene il tempo dei duchi era destinato a spegnersi a breve, tuttavia San Marco sarebbe rimasto a vegliare sulla città lagunare, fino a divenirne con il suo simbolo, il leone, l’insegna ufficiale della Repubblica.
La basilica di san Marco, eretta come una meravigliosa cappella del palazzo ducale, rimase fino al 1807 alle dipendenze del dogado.
Solo da allora assunse a ruolo di sede del Patriarcato veneziano, fino a quel momento appartenuto alla cattedrale di San Pietro di Castello.
Pubblicato il 7 Apr 2018 da vocidaiborghi
Con la tua scorta, ecco, Signor, m’accingo
A la difesa, ove m’oltraggia e sgrida
Guerrier, che ardisce querelar d’infida
L’alma che, tua mercé, di fede i’ cingo.
Entro senz’armi in non usato aringo,
Né guerra io prendo contra chi mi sfida;
Ma, perché tua pietà, mio Dio, m’affida,
Col petto ignudo i colpi suoi respingo.
Che se di polve già l’armi formasti
Al grand’Abram, contra i nemici Regi,
Si ch’ei di lor fè memorando scempio,
Rinova in me, bench’inegual, l’esempio,
E l’inchiostro ch’io spargo fa ch’or basti
A dimostrar di tua possanza i pregi.
Con la tua scorta, ecco, Signor, m’accingo, Manifesto di Sarra Copia Sulam hebrea…, in Venetia, MDCXXI, Appresso Ioanni Alberti, p. 7. Di seguito A.
Pubblicato il 19 Mar 2018 da vocidaiborghi
Signor, che dal mio petto arderti avanti
Mai sempre scorgi in olocausto il core
E sai ch’altro desìo che frale onore
M’instiga a porger preghi, a versar pianti,
Deh! Volgi in me il tuo sguardo e mira quanti
Strali m’avventa il perfido livore;
Sgombra da cieche menti il fosco errore,
Né d’oltraggiar il ver l’empio si vanti.
Ben so ch’indegna di tue grazie io sono;
Ma l’alma che formasti a tua sembianza
Fia ch’ad esserle scudo ognor ti mova.
Cessi d’audace lingua il falso suono
E chi adombrarla vuol scorga per prova
Che la mia fede ha in te ferma possanza.
Signor, che dal mio petto arderti avanti, Manifesto di Sarra Copia Sulam hebrea…, in Venetia, MDCXXI, Appresso Ioanni Alberti, p. 7
Pubblicato il 27 Feb 2018 da vocidaiborghi
L’imago è questa di colei ch’al core
Porta l’imago tua sola scolpita,
Che con la mano al seno al mondo addita:
Qui porto l’Idol mio, ciascun l’ardore.
Sostien con la sinistra arme d’amor
Che fur tuoi carmi, il loco ov’è ferita
La destra accenna, e pallida e smarrita
Dice Ansaldo, il mio cor per te si more
Prigioniera se ‘n viene a te davante
Chiedendo aita, ed a te porge quella
Catena, ond’è ‘l mio amor fido e costante.
Deh! L’ombra accogli di tua fida Ancella
E goda almeno il finto mio sembiante
Quel che nega a quest’occhi iniqua stella.
Pubblicato il 27 Feb 2018 da vocidaiborghi
Il Ritmo bellunese è uno dei primi componimenti della letteratura italiana volgare, scritto tra il 1193 e il 1196. Quest’anima dell’espressione poetica è costituita da quattro decasillabi epici, inseriti in una cronaca in latino. La mano che ha scritto il componimento, di aspetto arioso e quasi solenne – e che è stata attribuita ad un amanuense della Certosa di Vedana (Bl), nel comune di Sospirolo, in località Masiere – non è dato sapere.
Di certo, il nostro scrittore, chiunque egli sia stato, evidenzia un uso consapevole del volgare e tale scelta è stata forse motivata dall’esigenza di rivolgersi anche alle persone più semplici, volendo, con ciò, amplificare, il più possibile, l’eco della vittoria bellunese sui Trevigiani. Una sorta di accenno di letteratura di propaganda.
Il testo originario è andato smarrito. Per fortuna – e per magra consolazione – il testo fu copiato nel XVI secolo e ci è pervenuto in due diverse versioni, anche se presentano, per quanto lievi, delle variazioni.
Da una parte, l’erudito Giorgio Piloni (Historia, Venezia, 1607), dall’altra, Giovanni Maria Barzelloni (testo pubblicato da Vincenzo Crescini il 4 settembre 1577).
Tra le diversità, la data di redazione del Ritmo. Il Piloni la collocherebbe al 1196, mentre il secondo la anticiperebbe al 1193. Un’altra variazione importante riguarda la forma tramandata dalla tradizione, che la ricerca glottologica e filologica sulla linguistica del tempo hanno corretto in parte.
Le vicende narrate raccontano della distruzione del Castel d’Ardo – avamposto trevigiano nei pressi di Trichiana – Comune al centro della Valbelluna.
Sul finire del XII° secolo, nel corso di una delle battaglie combattute dai Bellunesi e dai Feltrini, capeggiati dal vescovo Gerardo de Taccoli, contro i Trevigiani per i possedimenti del castello di Zumelle e del suo contado, il castello di Casteldardo venne distrutto.
Qui sotto si riporta il testo come riportato dal Barzelloni.
“Anno domini Jhesu Christi millesimo centesimo nonagesimo tercio.
Indictione xj. Die viiis intrante mense aprili. Prudentissimi milites et pedites Bellunenses et Feltrenses Castrum Mirabelli maxima vi occupaverunt. Illud vero infra octo dies combusserunt. Atque in ominibus edifficiciis ipsum destruxerunt . Item eodem mense Clusas Queri ceperunt et destruxerunt et. Lxvj. Inter milites et pedites ac arcatores secum in vinculis duxerunt.
Et predam valentem duo millia librarum habuerunt. Alios interfecerunt et alios graviter vulneraverunt . Item eodem anno Castrum Landredi ceperunt . Ibi vero plures homines interfecerunt et. Xxvj. Inter milites et pedites atque arcatores seum in vinculis duxerunt, et totum Castrum combusserunt et funtditus destruxerunt.
De castel dard avi li nostri bona part;
j lo getà tutto intro lo flumo d’Ard
e sex Cavaler de Travis li plui fer
con se duse li nostre Cavaler.
(Di Castel d’Ardo ebbero i nostri buon partito, lo gettarono tutto dentro il fiume d’Ardo; e sei cavalieri di Treviso, i più fieri, i nostri cavalieri condussero con sé).
Praetera Domum Bauce vi occupaverunt et eam destruxerunt et xviij latrones inde secum duxerunt.
Postea anno Domini 1196. Indictione 14, die vj, exeunte mense junii dicti milites et pedites Bellunenses et Feltrenenses ad castrum Zumellarum iverunt. Illud autem magna vi in vii dies ceperunt et combusserunt atque in omnibus edificiis destruxerunt. Et cum maxima letitia domibus redierunt. Et hoc totum fuit factum fere sub Nobilissimo et prudentissimo domino Gerardo Bellunensi
