La “Stele del pan”. Un vandalismo di carnevale

Anche questo carnevale è ormai alle porte e Venezia si prepara a vivere gli ultimi scampoli della festa più colorata e divertente dell’anno. Le forze dell’ordine presidiano la città, per evitare che possano verificarsi stupidi atti vandalici e danneggiamenti vari. Tuttavia, si devono registrare gesti assurdi e insensati, come la coppia di focosi “amanti”, che non è riuscita proprio a resistere al richiamo della passione ai piedi del ponte di Calatrava, nei pressi di Piazzale Roma. Una scena indecente non nuova, dato che nel passato – anche recente – altre coppie si sono distinte in queste esibizioni degne di biasimo. Comunque sia, incurante del luogo e delle centinaia di persone assiepate attorno, per lo più preoccupate di riprendere l’intero amplesso

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immagine tratta dal web

e divulgare questo edificante momento via web, la coppietta a malincuore è stata fermata dagli agenti della polizia municipale e denunciata all’Autorità giudiziaria. A quanto pare i due hanno poco meno di quarant’anni: lei veneziana, lui dell’entroterra. Mah! Bel segnale per capire in quale degrado morale e sociale siamo avvolti.

Purtroppo, ci sono stati altri atti assurdi. La tendenza di sporcare le mura dei palazzi e delle chiese con le bombolette spray non è venuta meno, anzi. Si registrano nuove scritte incomprensibili, scarabocchi e parolacce volgari. Inoltre, per non farsi mancare nulla, qualche genio ha ben pensato di lasciare traccia della sua misera esistenza, imbrattando la cosiddetta “Stele del pan”, collocata alla fine della Calle Dolfin, adiacente al Campo dei Santi Apostoli, a pochi passi da Rialto.

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La lastra di pietra d’Istria è una testimonianza unica del suo genere, dato che le altre non sono sopravvissute al tempo e all’incuria, e rimanda al XVIII secolo, precisamente al 27 ottobre 1727, allorché il Governo Veneziano si mise d’impegno nel contrastare un fenomeno piuttosto dilagante in città: il contrabbando del pane. Su di essa è inciso l’editto su ambedue i lati, che vietava di cuocere, trasportare e vendere il pane se non all’interno dei panifici cittadini autorizzati, pena dure sanzioni.

Ecco il testo:

IL SERENISSIMO PRENCIPE
FA SAPER
ET ED ORDINE DELL’ILLVSTRISSIMO ET ECCELLENTISIMO SIGNOR
INQVISITOR SOPRA DATII
CHE ALCVNO COSI HVOMO COME DONNA NON ARDISCA DI FABBRICAR
O FAR FABRICAR VENDER E FAR VENDER PANE DI FARINA DI FORMENTO
IN QVAL SI SIA LVOGO DELLA CITTA’ COSI FORESTO COME CASALINO
NELLE CASE NE IN BARCHE NE PER LE STRADE ALLA PORTA D. GHETO
RIVA DELL’OGLIO SANTI APOSTOLI NEI ALTRI LVOGHI DELLA CITTA’
IN PENA DI CORDA PREGGION GALERA E DE DVCATI VENTICINQVE
PER CADAVNO OGNI VOLTA CHE CONTRAFACESSERO LA METTA DE
QVALI SUBE MINISTRI CHE FACESSERO LE RETENTIONI DELLE REI OLTRE
LA META DEL PANE E DVCATI DINQVE DALL ARTE DE PISTORI NE
POSSINO VSCIR DI PREGGIONE LI RETENTI SE NON HAVERANNO VNA
FEDE DAL GASTALDO SVE..TRO CHE SU STATA REINTEGRATA
ARTE DELLI DVCATI CINQVE ESBORSATI SE SI TROVASERO TRANS..
S DELLI FORNERI CADINO IN PENA DVPLICATA GIA DECRETATA.
…….ETA NON OTTIMA POSSINO ESSER RETENTI E POSTI
PER..V..ZZ SOPRA LE PVBLICE NAVI E S INTENDANO INCORSI E SOT
TOPOSTI A TVTTE LE PENE SPRADETTE QVELLI CHE LI AVESSERO
…NDATI A VENDER DETTO PANE.
E ALCVNO ARDISCE DI TEMERIAMENTE OSTARE ALLE RETENTIONI
…RELO ALL’ASPORTO DEL PANE S INDENDI CADVTO E SOCCOMBENTE
ALLE PENE MEDESIME DE DELINQVENTI POSSINO TANTO GL’VNI
QVANTO OGN ALTRO ESSER RETENTI DA OGNI CAPITANIO
CON LI PREMI SOPRADETTI.
POSSINO PVR ESSER RETENTI LI MAGAZINIERI OSTI E QVEI DELLE
CAMERE LOCANDE CHE TENESSERO PAN FORESTIER O D OGNI ALTRO
LVOGO FVOR DA QVEI PISTORI CHE FVSSERO OGLIGATI A RICEVERLO
SEMPRE SEGNATO E MARCATO GIVSTO ALL OBLIGO DELI STESSI
E NON ESSENDO CON TALI REQVESITI S INTENDI SEMPRE ..ER CONTRA
BANDO E LI MEDESIMI SOGGIETI ALLE SOPRADETTE PENE.
LI BARCAROLI CHE CONDVCESSERO PANE IN QVESTA CITTA’ E L
VASSERO PERSONE CHE NE PORTASSERO CABINO NELLA PENA DE
DVCATI VINTICINQVE E D ESSERLI ABBRVCIATA LA BARCA E S
INTENDINO BANDITI PER ANNI DVE DA QVEL TRAGHETTO IN
CVI ESERCITASSERO LA LIBERTA.
SIA IL PRESENTE PROCLAMA STAMPATO PVBLICATO ET INCISO
IN MARMO ALLA PORTA DEL GHETTO RIVA DELL OGLIO SANTI
APOSTOLI SAN MARTIN ET ALTRI LVOGHI PIV FREQVENTATI DA
CONTRAFACIENTI ACCIO RES.. PRESTAT L’INTERA OBBEDIENZA
ALLO STESO POSSA ESSER ADOTTO PRETESTO D IGNORANZA
PER VENIRE IN LVME DE REI SI ACCETTERANNO DENONCE SECRETE
E SI FORMERA PROCESSO PER VIA D INQVISITIONE CONTRO SIMILI CON
DRADATTORI ONDE SI ESTIRPI VN DISORDINE SI PERNITIOSO NON SOLO
ALL INTERESSE DEL PVBLICO CHE A QVELO DEL ARTE DE PISTORI.
DAT. LI 07 OTTOBRE 1707.
GIO. BATTISTA LIPPOMANO INQVISITOR SOPRA DACII
CANDIDO QVERINI NOD. DELL’INQVISIT.
ADI. 31 OTTOBRE 1727 PVBLICATO SOPRA LE SCALE
DI SAN MARCO E DI RIALTO AT ALTRI LOCHI

 

La stele, già oggetto nel passato di atti vandalici, è stata insudiciata dal “poaretto” di turno con le solite frasi idiote.

Stele del pan

Per fortuna il danno era di lieve entità, tanto che in poche ore si è provveduto a ripulirla con il solvente apposito per la pulizia della pietra e del marmo,

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in attesa del prossimo ebete.

Giuseppina Turrisi Colonna, “Sol Patria spira i più fervidi carmi al petto mio!”. L’addio di Lord Byron all’Italia

Alfin partia. Chi del crudel momento
può narrar le memorie ed il dolore,
e ciò che disse ai monti, all’acque, al vento
di quella terra ove lasciava il core?
Oh come quel dolcissimo lamento
fu travolto per ira o per livore!
Qual menzognero addio sulle divine
labbra pose un Francese, un Lamartine?

Taci! L’italo amor del mio Britanno,
g’itali sensi, oh male, oh mal comprendi:
non all’Italia no; ma frutteranno
onta infame a te stesso i vilipendi.
Italia morta? e innanzi a te non stanno
ancor vivi, temuti, ancor tremendi
Ugo, Alfieri, Canova’ e presso a questi
sì magnanimi Eroi, dinne, che resti?

Quella terra, quel ciel che l’innamora,
pien di mille pensier, di mille affetti,
Giorgio saluta dalla mesta prora
coi sospiri, coll’anima, coi detti:
chi non sogna di te? chi non t’adora,
o bella Patria d’ animosi petti,
bella Patria dell’arti! il viver mio
tu che allegrar potesti, Italia, addio.

Italia! Italia! com’è dolce il suono
della celeste armonica favella!
Nel ciel, nelle odorate aure, nel dono
d’ ogni cosa gentil, come sei bella!
di foco è l’alma dei gagliardi, sono
di foco gli occhi d’ ogni tua donzella;
e da quegli occhi, da quell’alme anch’io
se il bel foco ritrassi, Italia, addio.

Ahi! per le sette cime e per le valli
Dei famosi che avean la terra doma,
più non s’urtan guerrieri, armi, cavalli,
più non suona il trionfo Italia e Roma;
nè più s’avventa ai minacciosi Galli,
sanguinoso gli artigli, irto la chioma,
il gran Leon di Marco, e steso e muto
anco abborre l’Eroe che l’ha venduto.

Venduto! ahi rabbia! qual vergogna è questa,
qual crudo patto, quale iniquo orgoglio!
L’italo sangue avrai sulla tua testa
o snaturato nell’ infame scoglio.
Tu le piaghe sanar d’Italia mesta,
Tu rialzar dovevi il Campidoglio,
Tu di Cammillo erede, il brando e il senno
Vendesti ai figli che scendean di Brenno.

Fioria d’ogni virtù, d’ogni divina
arte di pace questo suol fioria,
e il tuo brando recò fatal ruina,
e libertà peggior di tirannia.
Oh bugiardi Licurghi! oh Cisalpina,
oh congrega di ladri, oh peste ria!
Fu per l’italo suol, fu crudo inganno
se Marengo vincesti e l’Alemanno.

Com’ aquila fra i nembi, o come lampo
terribil passa, egli passò l’invitto;
e copre mesto, solitario campo
il terror dell’Italia e dell’Egitto.
Io, benché tutto alla memoria avvampo
di tanto Eroe, di sì fatal conflitto,
io fremo, e dico: se vittoria il guida,
la comprò col delitto il parricida!

Oh perdona all’ ingrato! oh alfin riposa
dopo tanto dolor, tanto contrasto,
e a più bei studi intenta, o Generosa,
spregia l’armi crudeli e spregia il fasto:
teco, Madre d’Eroi, teco avrò posa
io che a soffrir la vita, ohimè! non basto.
ritornerò più grande; il cener mio
qui dormirà compianto: Italia, addio.

Deh posa, posa: troppo dolce e santo
è d’una pace desiata il raggio;
ma pace bella d’ogni nobil vanto,
non ozio d’infingarde alme retaggio.
Divina Italia! con che amaro pianto
vado altrove a cercar lodi al coraggio;
pur Grecia sogno, e mi vi chiama un Dio…
Addio, Patria mia vera, Italia addio.

Mariannina Coffa, una “dolce armonia che ai cieli aspira”, Psiche

Datemi l’arpa: un’armonia novella
trema sul labbro mio …
Vivo! Dal mio dolor sorgo più bella:
canto l’amore e Dio!

Psiche è il mio nome: in questo nome è chiusa
la storia del creato.
Dell’avvenir l’immago è in me confusa
coi sogni del passato.

Piche è il mio nome: ho l’ale e son fanciulla,
madre ad un tempo e vergine son io.
Patria e gioie non ho, non ebbi culla,
credo all’amore e a Dio!
Psiche, chi mi comprende? Il mio sembiante
Solo ai profani ascondo;
e nei misteri del mio spirto amante
vive racchiuso un mondo.

Nei più splendidi cieli e più secreti
sorvolo col desio:
nata ad amar, sul labbro dei Profeti
cantai l’amore e Dio.

Psiche è il mio nome: un volgo maledetto
pei miracoli miei fu mosso a sdegno,
e menzognera e stolta anco m’han detto,
mentre sui mondi io regno!

Eppur le voci d’una turba ignara
fra i miei concenti oblio:
nello sprezzo dei tristi io m’ergo un’ara
e amor contemplo e Dio.

Psiche! Ogni nato colle ardenti cure
di madre io circondai,
e il supplizio dei roghi e le torture,
figlia del ciel, provai.

Nell’infanzia dei tempi, il gran mistero
d’ogni legge fu servo al genio mio:
di Platone e di Socrate al pensiero
svelai l’amore e Dio!

L’arte, le scienze, le scoperte, i lenti
progressi dell’idea, chi all’uomo offria?
Io sui ciechi m’alzai, fra oppresse genti
schiusi al pensier la via.

Psiche è il mio nome…il raggio della fede
rischiara il nome mio:
e, Umanità, chi al nome mio non crede
rinnega amore e Dio!

Ogni lingua, ogni affetto, ogni credenza
col mio potere sublimar tentai:
serbando illesa la divina essenza,
forma, idioma ed essere mutai.

Or vittoriosa, or vinta, or mito, or nume,
or sobbietto di scherno, or di desio,
col variar di lingua e di costume,
svelai l’amore e Dio!

Pria che fosse la terra, io le nascose
fonti del ver mirai:
vissi immortale fra le morte cose,
me nel creato amai.

Eppure la terra non comprese ancora
le mie leggi, il mio nome, il senso mio:
conosce il mio poter…sol perché ignora
che Psiche è amore e Dio!

Dio, Psiche, Amor! Si vela in tal concetto
il ver, la forza, l’armonia, la vita:
son tre mistiche fiamme e un intelletto
che un nuovo regno addita.

O Umanità! La scola del passato
copri d’eterno oblio, …
quel Bene che finora hai vagheggiato
è Psiche, è Amor, è Dio!

 

 

Un ponte romano sulla Via Annia. Una seconda vita?

Qualche giorno fa, in una delle mie tante peregrinazioni tra le strade secondarie della viabilità veneziana, a causa dell’ennesimo incidente sull’A 4, mi sono trovato a percorrere il tratto della Triestina, che divide la cittadina di Ceggia. Qualche chilometro ancora e mi sono trovato di fronte al crocicchio a me molto caro, dato che una laterale conduce al mio vecchio amico: il ponte romano dell’antica Via Annia. Devo confessare che all’inizio il desiderio di rivederlo non era in cima ai miei pensieri, anzi. Le sue condizioni, come evidenziato in un mio precedente post, mi avevano impietrito. Fare i conti con il degrado che caratterizza molti dei nostri siti archeologici, storici o naturalistici, non è mai semplice, anche se parliamo di un piccolo e marginale ponte, una delle tantissime testimonianze del passato che impreziosiscono il nostro meraviglioso Stivale. Le imprecazioni non servono a nulla, anche se escono naturalmente dal plesso solare. Sono solo delle sterili parole senza senso. Poi, senza un perché, forse un semplice saluto ad un amico in camera caritatis, ha guidato lo sterzo dell’auto e, pochi minuti dopo, la sorpresa.
Capita di rado, ma alle volte i piccoli miracoli accadono, se magari aiutati.

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Tullia d’Aragona, “Fasseli gratia per poetessa”. Rime. Al Duca di Firenze.

Se gli antichi pastor di rose e fiori
sparsero i tempii, e vaporar gli altari
d’incenso a Pan, sol perché dolci e cari
avea fatto a le Ninfe i loro amori:

quai fior degg’io Signor, quai deggio odori,
sparger al nome vostro, che sian pari
a i merti vostri, e tante, e così rari,
ch’ognor spargete in me grazie e favori?

Nessun per certo tempio, altare, o dono
Trovar si può di così gran valore,
ch’a vostra altra bontà sia pregio eguale.

Sia dunque il petto vostro, u’ tutte sono
Le virtù, tempio; altare, il saggio core;
Vittima, l’alma mia, se tanto vale.

ALVISOPOLI, UN UTOPIA SETTECENTESCA

Sul finire del Settecento, a ridosso del piccolo centro rurale di Fossalta di Portogruaro, sottile cerniera tra la provincia di Venezia e la friulana Pordenone, un uomo, figlio del migliore Illuminismo, ebbe la rara possibilità di vivere la sua utopia idealistica.
Il suo nome era Alvise Mocenigo e nacque a Venezia il 10 aprile 1760 da Alvise V Sebastiano e da Chiara Zen, maggiorenti di un casato tra i più influenti e facoltosi della città lagunare d’allora. Nel 1790, presa in mano – in maniera alquanto disinvolta – la gestione delle proprietà della famiglia, Alvise intraprese un ambizioso progetto urbanistico, attraverso il quale gettò le basi di una città del tutto autosufficiente e funzionale, trasformando un vasto latifondo in un esperimento piuttosto articolato, sia dal punto di vista urbanistico che di significato sociale, nonché dai costi che si presentarono piuttosto elevati. Ma, alla fine, si trasformò in un’esperienza sociale e produttiva di grande rilievo storico.
Il latifondo, conosciuto sotto il nome di Molinat, era un ambiente paludoso, desolato e malsano, attraversato per lunghi tratti da un fiume di risorgiva; una terra nella quale la regina indiscussa era la malaria, l’aria insalubre, e, come lasciò scritto lo stesso Mocenigo, “una settantina di miseri formavano tutta la popolazione, gonfi di ventre, gialli di fisionomia, di cortissima vita”.

Tra le fonti da cui Alvise dedusse l’ispirazione per costruire la sua città notevole peso ebbero le idee di Pietro Giannini e Gaetano Filangieri, in piena sintonia col Secolo dei Lumi. Peraltro, frequentava l’Accademia degli Estravaganti, come era di casa nella più famosa Arcadia. A sua volta prese ad esempio Ferdinandopoli, la Comunità agricolo manifatturiera di San Leucio sorta nei pressi di Caserta, per volontà di Ferdinando di Borbone, re delle Due Sicilie.

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edifici della Comunità di San Leucio

La città di Alvise, che poté chiamarsi Alvisopoli nel 1800 grazie al governo austriaco, era impostata secondo criteri tra i più moderni della scienza agraria del tempo, integrata da una stretta filiera che si occupava della trasformazione dei prodotti e la distribuzione degli stessi sul mercato. Tra le produzioni, ad esempio il Mocenigo, ricordò “sopra l’uva, come sopra diverse altre materie, e con quali maggiori o minori mezzi si potesse estrar lo zucchero…Alle api e al miele dunque si rivolse il pensiero”. A queste si aggiunsero la coltivazione del riso, attraverso le più moderne tecniche piemontesi, la filatura di vari tessuti e la conceria.
Il grande lavoro di bonifica e la stessa città abbisognava di una nuova popolazione; e questa fu trovata nei possedimenti dei Mocenigo sparsi per tutto il Veneto: nuclei familiari di contadini e braccianti arrivarono dal vicentino, dal padovano e dal veneziano, in particolare dai dintorni della località di Cavarzere.

Dopo di che si intraprese la canalizzazione delle acque, attraverso l’escavo di due canali scolatori, il Taglio e il Fossalone, quindi si passò al rimboschimento dell’area, introducendovi diverse specie arboree. Allo stesso tempo si costruirono a villa padronale, le barchesse a loggia in stile dorico, la scuderia, la cantina, che delimitano un grande giardino all’italiana. Poco lontano le case coloniche e gli edifici adibiti alla lavorazione dei prodotti, quale il mulino, la fornace, la filanda, la conceria e per la pilatura del riso; non mancavano i fabbricati per la vita di ogni giorno: la chiesa, le scuole, la farmacia e una locanda.

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La villa padronale
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Le case coloniche
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edificio per la pilatura del riso
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Palazzo dell’amministrazione
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barchessa di sinistra
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barchessa di destra e il cantinone

La villa fu eretta tra il 1803 e il 1805 anni Battista Balestra, sulle fondamenta di un precedente edificio dominicale, era completata da un parco di ben otto ettari, dove un fosso di risorgiva alimenta piccole canalette e uno stagno, ricoperto da splendide ninfee.

Stando alla comune opinione, formatasi sulla scorta delle interpretazioni di storici dell’arte e studiosi locali, si è ritenuto soddisfacente l’attribuzione del progetto del complesso artigianale e molitorio, nonché il suo piccolo mondo, all’architetto bassanese Giovanni Battista Balestra. La tesi, passata per fondata, è stata successivamente fatta propria da buona parte di chi si è occupato di Alvisopoli, tra i quali, ahimè, si è posto pedissequamente anche lo scrivente. In realtà, Susanna Pasquali, accademica della Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma, nota per i suoi temi di ricerca sul Settecento italiano ed Europeo – tra i quali cito “Il Pantheon. Architettura e antiquaria nel Settecento a Roma, 1995 – ha smontato “chirurgicamente” l’errata attribuzione, riconoscendo a ragione la mano dell’architetto Vincenzo Balestra, l’architetto visionario, che guardava al futuro, soffermandosi su ciò che di buono intimava il passato.

Il rigoglioso scenario naturale è costituito da un antico bosco di pianura, composto da farnie e roveri, a cui si alternano le betulle, gli aceri, i carpini bianchi, i frassini o alberi centenari non nativi, quali ad esempio, gli ippocastani o i cedri, oltre a numerose specie arbustive ed erbacee. Qui cresce una rosa rara ed unica: la rosa Moceniga. La sua presenza non è sempre vistosa, a volte la si nota appena, seminascosta dalla vegetazione, altre volte spicca fra le altre specie erbacee. Nel corso delle sue fioriture, due volte all’anno – in inverno e in primavera – i suoi petali cambiano colore: da un colore rosso passa al rosa e al candore del bianco.

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La rosa Moceniga

Nella tipografia, allestita nel 1810 prima di essere trasferita a Venezia nel 1814, si vennero a pubblicare con il la marca tipografica dell’ape con il motto Utile Dulci, numerose opere di grande spessore letterario e saggistico, tra le quali l’Inno alla Pace di Giovanni Paradisi, che celebrò le nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, o le Api Panacridi di Vincenzo Monti.

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chiesa di San Luigi

La chiesetta, sorta sulle preesistenze di un oratorio intitolato a Sant’Antonio, venne edificata sulla base delle considerazioni del Balestra e del Canova. Disposta all’esterno della villa padronale, aperta all’intero complesso, era ed è dedicata a San Alvise e a San Luigi di Gonzaga. Nel 1843, Lucia Memmo, moglie di Alvise, mise mano alla chiesa, realizzando le due navate laterali e il coro. Inoltre, dispose che venissero qui trasferite molte delle opere, in precedenza custodite nell’oratorio di Cà Memmo di Cendon di Silea, in provincia di Treviso. Notevoli, tra questi, i due angeli marmorei, attribuiti a Giusto Le Court. Infine, nel 1907, fu eretto il campanile.

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oratorio di Cà Memmo
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il campanile

Con la morte dell’ultimo discendente della famiglia Mocenigo, Alvisopoli conobbe un processo di trasformazione e di abbandono. Nel 1983, l’intero complesso venne acquistato dall’allora IACP di Venezia, oggi Ater di Venezia, che decise il restauro, destinandolo a residenza, pur realizzando un recupero globale dell’antico centro. Dopo il recupero della villa, delle scuderie, dove si sono ricavati altri alloggi di edilizia popolare, negli ultimi anni sono stati ristrutturate le barchesse e le cantine, creando uffici e spazi per eventi ed esposizioni temporanee, estesi al giardino e al parco.

L’articolato intervento di restauro del complesso monumentale e naturalistico ha permesso la restituzione alla comunità di un bene, con una storia che rischiava di andare perduta.

Oltre al valore storico rappresentato dall’idea moderna e progressista di Alvise Mocenigo, la realizzazione del complesso/borgo da lui ideato, merita una profonda riflessione che, a mio parere, dovrebbero fare molti urbanisti nella ideazione di città moderne. Create sulla base dei bisogni contemporanei dell’urbanizzazione, ma fatti in maniera razionale e non estemporanea. Con l’idea e il presupposto di lasciare qualcosa di utile e duratura per chi sarà dopo di noi.

Laura Battiferri degli Ammannati. “Di fredda speme e calda tema cinta”, XVI secolo

Di fredda speme e calda tema cinta
in dubbia pace e certa guerra io vivo:
Me stessa a morte toglio, e tolta privo
di vita, a un tempo vincitrice e vinta.

Or mi fermo, or m’arretro, or risospinta
cammino inanzi; or lento, or fuggitivo
il passo muovo; or quanto in carta scrivo
dispergo; or vera mi dimostro, or finta.

Piango e rido; or m’arrosso, or mi scoloro;
or vo cara a me stessa, or vile; or giaccio
in terra, or sovra ‘l ciel poggiando volo.

Talor quel ch’io vorrei disvoglio e scaccio,
me stessa affliggo e me stessa consolo:
in tale stato ognor vivendo moro.

Vittoria Colonna, “donna nata fra le vittorie”. I sonetti

Scrivo sol per sfogar l’interna doglia,
ch’al cor mandar le luci al mondo sole;
e non per giunger luce al mio bel Sole,
al chiaro spirto, all’onorata spoglia.
Giusta cagione a lamentar m’invoglia,
ch’io scemi la sua gloria assai mi dole;
per altra lingua, e più saggie parole,
convien ch’a Morte il gran nome si toglia.
La pura fè, l’ardor, l’intensa pena
mi scusi appo ciascun, che ‘l grave pianto
è tal, che tempo, né ragion l’affrena.
Amaro lagrimar, non dolce canto,
foschi sospiri, e non voce serena,
di stil no, ma di duol mi danno il vanto.

Sonetto I, XVI secolo